Mentre il vento della contestazione soffia forte su tutto l’occidente il 12 ottobre 1968 a Città del Messico si aprono i Giochi Olimpici. C’è già chi li chiama le “Olimpiadi di sangue” perché la polizia e l’esercito hanno sparato sugli studenti disarmati che manifestavano in Piazza delle Tre Culture provocando decine di morti.
Canzoni non troppo in sintonia
Nonostante le richieste di annullamento o di spostamento dei giochi, alla fine non se n’è fatto niente. Con l’inizio della gare si pensa che la fase più critica sia ormai superata, ma non è così. Nel campus che ospita la squadra statunitense si possono ascoltare canzoni che non troppo in sintonia con l’ufficialità del momento, a partire dalla ormai famosa reinterpretazione acida dell’inno statunitense di Jimi Hendrix. Il bello deve ancora venire. Durante la premiazione dei 200 metri piani, infatti, Tommy “Jet” Smith e John Carlos, entrambi statunitensi ed entrambi neri, occupano il primo e terzo scalino del podio. Smith ha appena demolito il primato mondiale. Entrambi sono senza scarpe ed indossano calze nere, considerate “calze da ruffiano” nei ghetti. Quando gli altoparlanti dello stadio iniziano a diffondere le note dell’inno nazionale degli Stati Uniti Smith e Carlos reclinano la testa e alzano una mano chiusa a pugno e guantata di nero. Restano così per tutta la durata dell’inno.
Un gesto di ribellione
Spiegano poi che il loro gesto è un segno di ribellione. Dice Smith che «Nella vita ci sono cose più grandi dei record e delle medaglie» e Carlos aggiunge «Siamo stufi di essere cavalli da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam». I dirigenti statunitensi non apprezzano il gesto e li cacciano, ma il loro non resta un gesto isolato. Molti altri atleti di colore si schierano al loro fianco. Jim Hines, che nei 100 metri va sotto il limite dei 10”, non accetta di essere premiato dal Presidente del Comitato Olimpico Internazionale, mentre il nuovo recordman nel salto in lungo, Bob Beamon, si presenta sul podio scalzo e senza tuta.