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Taj Mahal, un blues nel braccio della morte

Il 2 dicembre 1971 nel “braccio della morte” del carcere di Wilmington, nello stato del Delaware risuonano le note di brani come Statesboro blues e Give your woman what she wants.

Un’iniziativa osteggiata dalle autorità

Nelle  anguste celle dove ogni giorno disperazione e angoscia vanno a braccetto si insinuano i suoni di una chitarra e di una voce potente, roca e carezzevole al tempo stesso. La chitarra e la voce sono quelle di Taj Mahal, il poliedrico musicista d’origine caraibica che in quel periodo è uno dei principali animatori della scena statunitense. Nonostante la sua popolarità, quando ha chiesto di poter suonare nel carcere non è stato facile neppure per lui ottenere l’autorizzazione necessaria per esibirsi in un concerto di solidarietà con i condannati a morte. A onor del vero la parola “solidarietà” non è stata mai citata in nessuno dei documenti ufficiali che hanno costellato la lunga trafila burocratica prima dell’esibizione. Sarebbe stata sospetta. Le autorità carcerarie hanno a lungo osteggiato l’iniziativa, considerata «inopportuna, intempestiva e foriera di inutili tensioni tra i carcerati dei vari settori del penitenziario». Per questo nella richiesta ufficiale, come nelle anticipazioni alla stampa si è preferito descrivere il concerto come un momento di “svago”, “distrazione” o “consolazione” dei condannati.

La musica è un regalo

La lunga serie di ipocrite dissimulazioni e mezze verità alla fine ottiene il risultato voluto: oltrepassare le mura del carcere. Taj Mahal, convertitosi alla Chiesa Ortodossa d’Etiopia dopo l’incontro con il rasta Marcus Garvey, è un convinto assertore della non violenza e all’uscita dal carcere si rivolge serio alla folla di giornalisti che lo sta aspettando: «Non parlo del concerto. Non sono fatti vostri. La musica di oggi è un regalo per un gruppo di persone, gente di carne e sangue come me, come voi, che passa le giornate aspettando il momento di essere messa a morte. Di loro vorrei parlarvi, della loro quotidiana passione. La pena di morte è un vero e proprio assassinio legalizzato. Nessun essere umano può disporre della vita degli altri e nessuno Stato può autorizzarlo. E poi, vi chiedo, è forse un caso se quasi tutti i condannati a morte hanno la pelle nera? Nera, amici, nera come il blues che vi piace tanto…».

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