Ben 86 Paesi del mondo hanno aderito alla Fashion Revolution week (18 – 24 aprile), la grande manifestazione mondiale dove si sono succeduti eventi ed iniziative per celebrare la moda come “forza di cambiamento”, un modo per sostenere chi vuole creare filiere trasparenti ed etiche.
Fashion Revolution nasce in Gran Bretagna da un’idea di Carry Somers e Orsola De Castro, pioniere del fair trade.
Si chiude la Fashion Revolution week
La Fashion Revolution week è stata coordinata, in Italia, dalla stilista Marina Spadafora, direttrice creativa di Auteurs du Monde e ambasciatrice di una moda etica e sostenibile, insieme con Virginia Pignotti, Laura Tagini e Carlotta Grimani.
Sostenuta da Altromercato – la maggiore organizzazione di Commercio Equo e Solidale in Italia – insieme alle Botteghe del Mondo su tutto il territorio nazionale, la manifestazione è nata in ricordo della morte di 1133 persone per il crollo del complesso produttivo di Rana Plaza, a Dhaka in Bangladesh il 24 Aprile 2013.
Per non dimenticare quel bruttissimo momento della storia, il Fashion Revolution Day ha voluto fare “il primo passo per la presa di coscienza di ciò che significa acquistare un capo d’abbigliamento, verso un futuro più etico e sostenibile per l’industria della moda, nel rispetto delle persone e dell’ambiente”. Questo quanto sostiene sul sito dell’iniziativa Marina Spadafora, direttrice creativa di Auteurs du Monde, la linea di moda etica di Altromercato, e coordinatrice del Fashion Revolution Day in Italia.
Il movimento ha invitato le persone a indossare un indumento al contrario, scattare una foto e postarla sui social network chiedendo ai brand “Chi ha fatto i miei vestiti?“.
Anche i capi che indossiamo possono essere più sostenibili e per questo diventa doveroso chiedere ai grandi marchi dell’abbigliamento più trasparenza sulla catena di produzione dei capi che vengono messi sul mercato.
A tal proposito è stata lanciata la campagna #whomademyclothes – “Chi ha fatto i miei vestiti” – lanciata per la settimana che si è appena chiusa, dall’omonimo movimento no profit nato nel Regno Unito.
Greenpeace per la Fashion Revolution Week
Per l’occasione, l’organizzazione ambientale Greenpeace ha voluto sottolineare l’impatto ambientale di capi molto comuni che noi tutti abbiamo l’abitudine di sostituire troppo velocemente.
Solo per fare un esempio, ogni anno vengono prodotti al mondo circa 2 miliardi di paia di jeans per la realizzazione dei quali servono ben 7 mila litri d’acqua.
- Per produrre una t-shirt sono necessari 2.720 litri di acqua, vale a dire la stessa quantità che ognuno di noi beve mediamente in tre anni.
- Per il processo di tintura vengono impiegati inoltre 1,7 milioni di tonnellate di prodotti chimici, come ad esempio i PFC (composti poli e per fluorurati), inquinanti e dannosi per le piante, per gli animali e per l’essere umano.
Un altro dato riguarda poi lo spreco derivante dagli scarti di produzione. Secondo le stime riportate dall’organizzazione ambientalista, ogni anno si producono 400 miliardi di metri quadri di tessuti, di cui circa 60 miliardi diventano scarti.
Per concludere, solo un quarto degli 80 miliardi di capi di vestiario prodotti al mondo viene riciclato: 3 indumenti su 4 finiscono nelle discariche o negli inceneritori.