Il 2 giugno 1981, muore a Roma Rino Gaetano. È notte quando la sua Volvo 343 si schianta in via Nomentana contro un camion. La versione ufficiale della morte narrata ad anni di distanza in genere si ferma qui.
La febbrile ricerca di un pronto soccorso
Pochi si ricordano che, in realtà, il cantante è ancora in vita quando i soccorritori lo estraggono dalla sua auto. Nessuno ricorda più la febbrile ricerca di un pronto soccorso disposto a prendersi cura di lui. Sono ben cinque gli ospedali che ne rifiutano il ricovero e non risulta che qualcuno abbia verificato davvero le responsabilità di quanto accaduto quella notte. Non è una storia nuova, ma vale sempre la pena di raccontarla. Allo stesso modo vale sempre più la pena di indignarsi per il trattamento che i media riservano alla sua immagine. Più passa il tempo e più si consolida la sua fama di giullare anticipatore del cosiddetto “disimpegno” degli anni Ottanta, da contrapporre, chissà perché?, alla cosiddetta “politicizzazione” degli altri cantautori. A dispetto dei luoghi comuni Rino Gaetano era un cantautore tutt’altro che superficiale o disimpegnato. Casomai non si rassegnava all’idea che l’intelligenza e l’ironia non potessero andare d’accordo con l’impegno, spesso mal tollerava l’assurdo linguaggio degli intellettuali, ma utilizzava, non certo a caso o a sproposito, concetti complessi e sofisticati. Basta pensare alla “lotta di classe” che lui considera un valore da contrapporre alla “svastica” in Metà Africa e metà Europa.
Disimpegnato a chi?
L’idea che Rino sia stato anticipatore del disimpegno degli anni Ottanta fa addirittura rabbrividire se si ascolta l’ultimo album registrato proprio all’inizio degli anni Ottanta, qualche mese prima di morire, i cui contenuti rabbiosi, ma positivi, sono già anticipati dal secco titolo: E io ci sto. Qui l’ironia si fa più incisiva, quasi caustica. Non è un caso che i teorici del “cantautore disimpegnato” e un po’ cazzaro non lo amino e lo considerino una sorta di anomalia nella produzione del cantautore. In realtà Rino Gaetano scrive in quell’album il suo testamento musicale, quasi avesse il presentimento della fine, con l’urgenza e la voglia di far capire che i tempi stanno cambiando, ma in peggio. C’è l’ironia, ma ci sono anche i germi di una ribellione tutt’altro che silenziosa nei confronti di chi lo vuole rinchiudere nello stereotipo del ‘cantautore divertente’: «…a te che ascolti il mio disco forse sorridendo/giuro che la stessa rabbia sto vivendo/siamo nella stessa barca, io e te…». Nello stesso album c’è anche ‘Scusa Mary’, una sorta di congedo disperato dagli ideali degli anni Settanta, banalizzati, triturati e consunti. La struttura è analoga a quella di ‘Aida’ ma l’approccio è decisamente diverso, meno fiducioso e più nostalgico. Rino Gaetano meriterebbe che di lui si parlasse con più rispetto e magari sarebbe auspicabile non leggere più che ‘Agapito Malteni il ferroviere’ (la storia del macchinista meridionale che vede «la gente che abbandona spesso il suo paesello/lasciando la sua falce in cambio di un martello» e decide di fermare il treno a Barletta per non farli più emigrare) è «…l’esempio di un nonsense disimpegnato lontano anni luce dalla paludata tristezza dei cantautori di sinistra…». Rino Gaetano era un cantautore impegnato. Agli occhi dei suoi tardivi scopritori questo concetto può sfuggire, ma è così. Si muoveva sulle strade sperimentate da altri cantautori come Ugolino, Gianfranco Manfredi o il secondo Ricky Gianco e sapeva sorridere perché non concepiva l’impegno come una barbosa ripetizione di concetti già masticati. Così è stato amato da chi l’ha conosciuto da vivo e così ancora sarebbe meglio ricordarlo. Altrimenti è meglio il silenzio.