Il 7 marzo 1974 muore a sessantotto anni il cantante Alberto Rabagliati, considerato un vero e proprio mito nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta anche grazie alle protezioni del regime fascista.
L’erede di Rodolfo Valentino
Nel 1926 vince, tra ottocentomila candidati, un concorso indetto dalla Fox per trovare l’erede di Rodolfo Valentino e se ne va a Hollywood dove non riesce a sfondare nel cinema, ma scopre lo swing. Tornato in Italia nel 1930 debutta come cantante con l’orchestra Blue Star di Pippo Barzizza. Alla fine degli anni Trenta diventa oggetto di uno dei primi fenomeni italiani d’idolatria di massa con l’affermazione dello “stile Rabagliati”, una sorta di swing addolcito e sfumato nelle sue connotazioni ritmiche più azzardate, in modo da non contrastare con le direttive della censura fascista che non ama i ritmi d’oltreoceano. Sono molti a pensare che senza il sostegno del regime non sarebbe successo niente. A differenza di quanto accade a interpreti come Natalino Otto, più legati agli ambienti antifascisti e che spesso incorrono nelle maglie della censura, Alberto Rabagliati può, infatti, fare affidamento sui grandi mezzi di comunicazione per alimentare la popolarità di cui gode e diffondere le sue canzoni: cinema, radio e giornali.
Uno spazio tutto suo
In un periodo in cui i direttori d’orchestra sono più importanti dei cantanti e le fortune degli interpreti sono strettamente legate a quelle delle orchestre di cui fanno parte, lui può contare su uno spazio radiofonico tutto suo con frequenza settimanale e in un’ora di grande ascolto. A partire dal 1941 conduce, infatti, ogni lunedì alle 20.40, in prima serata, una trasmissione intitolata “Canta Rabagliati” nella quale, oltre a conversare con il pubblico, presenta ben sei canzoni. Nel periodo compreso tra il 1940 e il 1941 ha, poi, la possibilità di usufruire di un’altra presenza fissa alla radio come cantante nei concerti radiofonici di musica leggera e canzoni dell’Orchestra di Alberto Semprini. A confermare la simpatia di cui gode da parte del regime c’è infine la decisione di utilizzare come colonna sonora della campagna per l’incremento demografico voluta da Mussolini, la sua versione del brano C’è una casetta piccina, scritta da Cesare Valabrega e Carlo Prati e conosciuta anche con il titolo di “Sposi”. Nel dopoguerra non riesce più a ripetersi ai livelli precedenti e, pur continuando a cantare, vive fino all’ultimo del ricordo degli anni di grande successo.