Il 18 giugno 2004 muore improvvisamente Elia Mantovani, il chitarrista dei Marmaja. La band annuncia la scomparsa dicendo: «Nessuno potrà ascoltare dal vivo il nostro nuovo disco, perché Elia non c’è più».
Il terzo album della storia della band
L’emozione è palpabile nella voce di Guido Frezzato il front man di uno dei gruppi storici di quel genere che in modo alquanto impreciso viene definito “combat rock”. Nella frase c’è più di una verità perché l’uscita di Marmaja, il terzo album della loro storia, coincide con la morte improvvisa di Elia Mantovani, la chitarra grafica del gruppo, il levigatore delle atmosfere, il cesellatore delle evoluzioni sonore. Per capire quanto di lui ci sia nel disco è sufficiente leggere la title track dove la sua firma compare in sette brani su dodici o ascoltarlo con orecchio allenato per accorgersi come nei primi cinque brani tutto giri intorno alla sua chitarra. La scomparsa stende un’ombra sul futuro del gruppo. In una lunga intervista proprio Frezzato chiarisce le intenzioni della band. «Ci manca e ci mancherà sempre perché i Marmaja non sono soltanto un gruppo musicale, ma un laboratorio, una comunità unita e solidale nel profondo. La sua scomparsa apre una ferita dolorosa in quella comunanza di sentimenti e idee che sta alla base del nostro lavoro. Non molleremo, ripartiremo da lì e andremo avanti. Non lo sostituiremo. Ridistribuiremo i ruoli e continueremo per la nostra strada».
Un disco gioioso, quasi un paradosso
A chi gli chiede se non sia paradossale che tutto questo avvenga dopo la pubblicazione di un album in cui la band sembra trovare una nuova fisionomia sonora, più solare, quasi gioiosa, risponde: «È la morte che è paradossale, non la sua scadenza temporale. L’album nasce dalla voglia di ragionare intorno all’idea del domani, di un futuro che ci piaceva immaginare ricco anche di gioia, di giocare un po’ con le promesse, il mistero, le speranze che l’idea del domani alimenta». La chiave è forse nella canzone di Bertelli Vedrai come è bello? «È anche lì, ma è soprattutto in quell’allegria sudamericana che caratterizza le musiche e gli arrangiamenti. Il folk è solo un pezzo della nostra storia, così come gli echi balcanici ieri e, oggi, le atmosfere sudamericane. Chiudere i Marmaja in un genere fa torto alla nostra storia che è improntata al confronto, alla voglia di conoscere e sperimentare senza preoccuparsi dell’etichetta. Nel disco confluiscono tante idee ed esperienze, compresi un paio di progetti paralleli di cui alcuni di noi fanno parte come il bossa rock degli Iguana Sana o del jazz samba del Trio Brasil. Noi raccontiamo storie, parliamo del lavoro, della vita della gente, delle sue speranze e anche delle sue lotte. È un modo di fare politica, anche se diverso da chi sceglie la canzone-slogan col riff ripetuto da cantare con il pugno alzato, ma è il nostro».