Il 1° novembre 1970 muore d’infarto a Helena, nell’Arkansas, il cinquantottenne James “Peck” Curtis. Originario di Benoit nel Mississippi, fin da giovane è attratto dalla carica ritmica del blues.
La lezione della strada
I suoi primi concerti, se così li si può chiamare, avvengono agli angoli delle strade dove il ragazzo urla a squarciagola i motivi imparati dai bluesmen viaggianti accompagnandosi con il battito delle mani o con un pezzo di legno. Quando le vicissitudini della vita lo portano a Helena, in Arkansas, cerca di inserirsi nelle varie bluesband del posto. Non sa suonare alcuno strumento, ma sa battere il ritmo che è un piacere. Scopre quindi il “washboard” (asse per lavare i panni), una tavola ricoperta da una lamiera ondulata da percuotere o strisciare in funzione del suono che si vuole ottenere. Trova così lo strumento per lui. Cantando e battendo fa carriera. Dai locali passa agli spettacoli viaggianti e per qualche tempo entra anche a far parte dei Rabbit Foot Minstrels, uno dei più conosciuti gruppi di vagabondi del blues. Nel frattempo ha trovato un altro strumento da suonare: il “jug”, una sorta di bottiglione che, quando si soffia, fa un suono simile (si fa per dire) al contrabbasso.
Le crisi e il ritiro
Padrone di due strumenti riesce a trovare un posto da titolare nella South Memphis Jug Band. È il 1933, anno in cui, invitato a definire il blues, avrebbe risposto così: «Il blues? È la somma di cuore e percussione!» Fedele a quella definizione si applica nello studio di uno strumento più avanzato di quelli che ha suonato fino a quel momento e diventa batterista. Non rinuncia a cantare, ma dietro a grancassa, piatti, tamburi e rullanti si fa notare. Alla fine degli anni Trenta suona con Howlin’ Wolf e Robert Johnson e negli anni successivi accompagna le avventure di una lunga serie di giganti del blues, come Sonny Boy Williamson e Little Walter. Nel 1969, pochi mesi prima di morire, si era ritirato dalle scene perché il suo cuore gli aveva dato il primo brutto segnale.