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Michael “Nick” Nichols, fotografo d’eccezione

Michael “Nick” Nichols fotografo

Questo il racconto di un incontro con un fotografo d’eccezione: Michael Nick Nichols.

Michael Nick Nichols, fotografo d’eccezione

Quando sono partito per il Kenya sapevo che avrei incontrato Michael “Nick” Nichols, uno dei più grandi fotografi del “National Geographic” ma non ero affatto certo che sarei riuscito a ottenere un’intervista vera e propria. Anzi, sinceramente ero più concentrato sull’obiettivo minimo, ossia come “recuperare” materiale sufficiente per scrivere qualcosa riguardo al suo ultimo lavoro sugli elefanti, raccontando per parole e immagini il backstage dei quattro giorni che avremmo passato insieme. Poi un pomeriggio, con 5 minuti di preavviso mi hanno detto che Michael mi stava aspettando nei pressi della piccola piscina del Borana Ranch a Lapikia, sulle pendici del monte Kenya. Onestamente, ci ho messo un po’ solo per capire se ero più felice per l’inattesa opportunità o terrorizzato per il fatto di dover intervistare uno dei miei “idoli” senza neanche avere il tempo per riordinare le idee. Per fortuna ho scoperto subito che Nichols è un uomo diverso dal tipico cliché del fotografo superstar a stelle strisce. Aperto, gentile, disponibile ben oltre i classici “10 minuti”, Nichols ci ha dato sempre risposte convincenti e interessanti. Ecco come sono andate le cose.

Mister Avventura. L’Indiana Jones della fotografia. Questi soprannomi, belli o brutti che siano, riassumono bene il modo estremo in cui hai affrontato il tuo lavoro. Le situazioni che hai vissuto per completare molti dei reportage sarebbero insopportabili per la maggioranza dei tuoi colleghi. Ma come fai?

Questo non è mai stato un problema per un semplice motivo. Fin da piccolo mi sono dimostrato insofferente alla vita in città, lontano dalla natura, dagli spazi aperti. Per me poter stare tre mesi in mezzo alla giungla a fotografare una famiglia di scimpanzé, piuttosto che trascorrere alcune settimane dormendo sotto le stelle del Grand Canyon, non è mai stata una fatica, ma una gioia, davvero. Tecnicamente vivo a New York, ma in realtà cerco di passarci il minor tempo possibile, anche adesso che sono più vecchio. Altro discorso è invece sopportare condizioni estreme come quelle a cui probabilmente ti riferivi. Per esempio centinaia di insetti che ti coprono la faccia, che ti entrano in bocca, negli occhi, nelle orecchie, piuttosto che sopportare tassi di umidità prossimi al 100 per cento con temperature di 40 gradi. Tutto questo ovviamente non è un piacere nemmeno per me. Piuttosto, l’ho sempre considerato un prezzo da pagare per il tipo di fotografie che volevo fare. D’altronde, se vuoi esser ragionevolmente certo che il gorilla che stai fotografando non abbia mai visto prima un uomo e tanto meno un fotografo, sei costretto a ricercare angoli di pianeta davvero remoti e difficili da raggiungere. E se t’infili in una giungla di quel tipo, gli insetti sono il minimo che ti puoi aspettare.

Tra le altre cose che ti rendono “unico”, c’è senza dubbio anche l’impegno in difesa dei diritti della natura. Spesso non ti sei limitato a fare delle foto naturalistiche eccezionali, ma hai superato i confini della professione di fotografo. Perché?

Anche in questo caso le cose vanno definite un po’ meglio. Io ho soprattutto avuto la fortuna di lavorare con delle persone speciali, come Mike Fay e Jane Goodall per esempio, mettendo loro a disposizione la mia capacità di raccontare storie attraverso le lenti di un obiettivo. In questi casi in particolare, da un punto di vista professionale non ho fatto nulla di speciale. Quello che mi è successo semmai, è che a forza di raccontare storie, un giorno ho scoperto che qualcuna di queste storie mi era entrata sottopelle diventando anche un po’ mia. Da quel momento ho sempre cercato di lavorare con l’intenzione di realizzare un servizio capace di arrivare ai cuori dei lettori del National Geographic, sensibilizzandoli, ma anche cercando di fare qualcosa di concreto per proteggere l’ambiente. Non mi sento però un uomo speciale per questo. Sono convinto che chiunque viva 6 mesi a contatto per esempio con gli elefanti, finisca prima o poi per preoccuparsi per il loro futuro al punto di essere indotto a fare qualcosa di concreto per proteggerli non appena se ne presenta l’occasione.

Hai citato gli elefanti. Non mi sembra un caso, dal momento che si tratta del tuo progetto attuale, che dovrebbe vedere la luce sul numero di novembre 2008 del National Geographic? Puoi dirci qualcosa?

Innanzitutto, non è la prima volta che i destini degli elefanti e il mio si incrociano. Inoltre, anche in questo caso i protagonisti veri della storia sono coloro che gli elefanti li proteggono, dedicando la loro stessa vita a questa causa. Da un punto di vista tecnico, invece, ho usato oltre alle “traps”, anche altre soluzioni artigianali per cercare angoli e inquadrature diverse. Come di consueto ho investito molto tempo anche per cercare di essere accettato dagli animali, così da poterli riprendere come se io, essere umano, non mi trovassi lì a pochi metri dal branco. Si tratta di uno dei principi su cui si basa parte del mio lavoro e a cui si deve sostanzialmente l’invenzione e l’uso delle trappole. Mi riferisco al desiderio di riprendere gli animali senza condizionarne il comportamento con la nostra presenza. Piazzare una fotocamera nascosta tra la vegetazione della riva di un lago africano significa scoprire cosa accade veramente nella savana. In qualche misura è un po’ come se non fossi più io il fotografo, ma gli animali stessi.

Restando in ambito tecnico, il passaggio dalle pellicole alle schede di memoria, cosa ha significato per uno che le foto è abituato a farle in ambienti a dir poco estremi?
Detto che i miei lavori non fanno testo, poiché per portarli a termine posso contare su grandi risorse economiche messe a disposizione direttamente dal National Geographic, cosa che si traduce per esempio nella possibilità di creare veri e propri campi base dove gestire le problematiche tecniche, il passaggio al digitale in effetti ha un po’ cambiato il nostro modo di lavorare. Non solo perché oggi al posto della borsa delle pellicole ne abbiamo una piena di schede di memoria e batterie, ma sopratutto perché ci permette di verificare immediatamente l’esito del nostro lavoro anziché dover aspettare il resoconto di chi a New York aveva il compito di sviluppare e stampare i rullini. Credo che questo sia uno dei vantaggi più grandi che il passaggio al digitale ha portato con se. Sono convinto che ciò valga per me che faccio il fotografo di mestiere così come per gli appassionati e i giovani che si affacciano oggi per la prima volta sul mondo della fotografia. Penso per esempio a mio figlio che ha scelto una strada diversa dalla mia e che ha preso in mano una macchina per la prima volta pochi anni fa, a vent’anni. La possibilità di poter verificare subito l’esito delle proprie scelte tecniche su ogni singolo scatto, contribuisce a velocizzare l’apprendimento e il miglioramento tecnico del fotografo. Da questo punto di vista il digitale è davvero una rivoluzione.

E rispetto alla post-produzione? Quale il tuo pensiero sul fotoritocco?
Personalmente la mia regola aurea è semplice: “non si deve mai spostare un pixel”. Dunque niente fotoritocco, inteso come intervento che modifica l’immagine originale, ma solo ed esclusivamente interventi analoghi a quelli che erano possibili anche prima in camera oscura. Curve, livelli e saturazione, ma nessuna modifica della fotografia. Ogni intervento che va oltre questa misura, fa sì che si passi dalla fotografia alle arti grafiche. Si tratta di un concetto importante su cui dobbiamo riflettere tutti, dai fotografi ai photo editor.

Qualche consiglio per i giovani che si affacciano oggi sul mercato della fotografia?
Il primo consiglio è quello di non prendermi come esempio, nel senso che come ho già detto i lavori che faccio sono possibili solo grazie a una copertura finanziaria eccezionale garantita dal National Geographic. Quindi per prima cosa suggerirei di lavorare sul concetto di “storia” più che di servizio fotografico. Che ci si occupi di natura, di sociale o di cronaca l’unica cosa che conta per editori e lettori è la capacità narrativa di una proposta. A nessuno interessa più vedere delle foto di elefanti, anche se bellissimi, mentre è più facile trovare riscontri positivi proponendo il racconto di come per esempio un gruppo di uomini lavori giorni e notte per salvarli. Inoltre, piuttosto che partire subito per luoghi lontani e mete esotiche, ai giovani consiglio di cominciare a lavorare su temi a loro vicini anche geograficamente. Quanto alla tecnica, detto che il digitale non è più una scelta ma un passaggio obbligato, ovviamente il mio consiglio è di non prescindere da basi solide. Corsi, libri e tanta esperienza sul campo sono e resteranno elementi fondamentali nella formazione di un fotografo.

Ci puoi parlare dei tuoi progetti per il futuro? Cosa ci dobbiamo aspettare dopo gli elefanti?
Non posso ancora dirti esattamente dove, ma ho in mente di cambiare “specie” in modo radicale. Negli ultimi anni ho infatti posto le basi per occuparmi di altri animali a rischio, gli uomini. Viaggiando in lungo e il largo per tutto il mondo ho avuto modo di conoscere realtà drammatiche come per esempio quelle dei pigmei, che sono davvero a rischio di estinzione per ragioni ambientali (la distruzione degli habitat naturali su cui si basano le abitudini di vita) e, soprattutto, politiche. E a loro che voglio dedicarmi per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei governi. Parlo di persone, uomini, donne e bambini cui sono negati tutti i diritti, perfino quello di esistere. In un certo senso, essi già oggi non esistono davvero.

Da FotoUp

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