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La lezione di Booker Little jr

Il 5 ottobre 1961 muore a New York il trombettista Booker Little jr. Ha soltanto ventitré anni ed è originario di Memphis, nel Tennessee.

Non ancora ventenne con Sonny Rollins

Proprio a Memphis frequenta la Manassa High School e al termine se ne va a Chicago presso il locale conservatorio. Non ha ancora vent’anni quando inizia a suonare con Sonny Rollins che, poco tempo dopo, lo presenta al batterista Max Roach. I due si trovano simpatici. Nel mese di giugno 1958 nasce così un sodalizio destinato a dare frutti straordinari in un periodo di tempo relativamente breve, visto che non dura più di un anno. Booker Little suona nel 1959 con Mal Waldron e nel 1960 con John Coltrane. Nell’estate del 1961, già gravemente ammalato, suona al Five Spot Café di New York al fianco di Eric Dolphy, Mal Waldron, Richard Davis e Eddie Blackwell. Poco tempo dopo la morte per iperuricemia chiude la sua breve vita. Di lui restano pochissime testimonianze discografiche. Le poche registrazioni a suo nome lo vedono attorniato da musicisti come Ron Carter, Don Friedman, Eric Dolphy, Max Roach, Scott LaFaro, Pete LaRoca, George Coleman, Reggie Workman e Julian Priester. Tracce del suo lavoro si ritrovano anche in dischi di Max Roach o di altri colleghi di Memphis, come George Coleman e Frank Strozier.

Un’impronta profonda

Nonostante la vita breve Booker Little jr ha lasciato un’impronta profonda sugli sviluppi del jazz degli anni Settanta e Ottanta. Il suo approccio stilistico è critico nei confronti delle improvvisazioni fredde e accademiche. Le sonorità della sua tromba sono aspre, spesso distorte ricche di assonanze con le sonorità della voce, tanto che Nat Hentoff paragona il suo fraseggio «all’estatico canto di un rabbino». Si ritiene che il suo lavoro segni un deciso allontanamento del jazz sperimentale dal cammino tracciato dagli innovatori della generazione precedente, come Miles Davis o Clifford Brown. Non lo affascina lo sviluppo logico e rispettoso della melodia, così come considera poco interessante la cura della tonalità. Con lui la tromba si affranca dai vincoli tradizionali e guarda alle esperienze più estreme della musica afro-americana dei tardi anni Sessanta. Nelle sue improvvisazioni c’è una libertà sconosciuta all’hard bop di quel periodo, ancora oggi sorprendente per la sua modernità.

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