In occasione del centocinquantesimo anniversario del Proclama di emancipazione dalla schiavitù promulgato il 1° gennaio 1863 dal Presidente degli Stati Uniti Abraham Lincoln durante la guerra civile americana, sono state molte le iniziative di commemorazione sia dell’evento specifico che della rivisitazione delle vicende del doloroso conflitto tra Nord e Sud. Film, mostre, esposizioni, documentari storici e nuove pubblicazioni hanno gettato una nuova luce sugli anni della guerra tra “blu” e “grigi”. Degna di nota è stata l’uscita di The fall of the house of Dixie dello storico dell’Università dell’Illinois Bruce Levine (Penguin Random House, 2014) tradotto in italiano con La guerra civile americana. Una nuova storia (Einaudi, 2015).
La società degli Stati del Sud ricostruita dallo storico Bruce Levine
Un’originale ricostruzione della società americana del tempo
Nelle pagine di Levine è possibile scorgere una nuova prospettiva d’analisi degli anni del conflitto. Se la grande maggioranza delle pubblicazioni concentrava la propria attenzione sulle cause dello scontro, sullo svolgimento degli eventi bellici o sui principali protagonisti della guerra civile americana, lo storico dell’Illinois si sofferma invece sui cambiamenti politici, sociali ed economici che sconvolsero l’America, e gli Stati del Sud in particolare, andando così a colmare una lacuna nella cultura storica americana.
È una vera e propria fotografia sociale degli Stati confederati quella di Levine, il ritratto di un paese in transizione dove la guerra agì come un vero e proprio terremoto e che ne cambiò per sempre i connotati: “La guerra civile non solo sconvolse la società del Sud, ma trasformò la politica nazionale degli Stati Uniti nel suo complesso. A cominciare dall’elezione di Lincoln nel 1860, il vento dei cambiamenti finì per indebolire la morsa d’acciaio che l’élite del Sud manteneva sul governo federale e per condurre i suoi capi all’isolamento politico. Nei ruoli occupati in passato dai proprietari terrieri e dai loro amici, ora subentrarono i nordisti, con valori, priorità e opinioni radicalmente diversi […] Nelle mani di [questi] uomini, il governo federale del dopoguerra affidò le posizioni chiave in passato assegnate agli Stati del Sud, compreso il potere e la responsabilità di salvaguardare la libertà e diritti dei cittadini (che ora includevano milioni di ex schiavi). Gli emendamenti costituzionali adottati all’indomani della guerra costituirono le basi giuridiche degli Stati Uniti di oggi e indicarono la strada per la loro trasformazione in una repubblica multirazziale”.
La fine della società sudista
Tramite una scrupolosa analisi di diari personali, lettere e documenti inediti, Levine traccia un profilo della società del Sud prima, durante e dopo le ostilità. Allo scoppio della guerra, gli Stati confederati erano decisamente popolati (circa dodici milioni di persone), ricchi di risorse naturali e di enormi coltivazioni di zucchero, canapa e tabacco distribuiti su una superficie grande come Gran Bretagna, Francia, Austria, Prussia e Spagna del tempo. Il cotone era l’emblema della ricchezza del Sud e le esportazioni di questo bene costituivano un punto di forza dell’economia meridionale tantoché una dozzina di contee degli Stati del Sud erano tra i territori più prosperi pro capite alla metà del XIX secolo. L’orgoglio di questo benessere – sottolinea puntualmente Levine – era rappresentato dalla Carolina del Sud (non a caso, il primo Stato a separarsi dall’Unione ancor prima del bombardamento di Forte Sumter) e la forza di Dixie era tale che il politico e procuratore James Henry Hammond disse che poteva “diventare un impero che potrebbe governare il mondo”. Il puntello di questa ricchezza era dato dalla schiavitù, dalla “peculiare istituzione”.
Migliaia e migliaia di uomini, donne e bambini erano assoggettati allo stato di schiavi e utilizzati come raccoglitori e servitori nelle piantagioni del Sud. E qui Levine sottolinea immediatamente un dato di fondamentale importanza: non tutti i sudisti erano proprietari di schiavi, li avevano solo coloro che controllavano aziende agricole, banche e i gangli della vita politica e sociale del Sud. Lo storico americano rileva anche che, di tutti i delegati che diedero vita agli Stati confederati nel 1861, solamente uno non possedeva alcun schiavo. Per giustificare la scissione dall’Unione e, allo stesso tempo, il tentativo di preservare il proprio stile di vita, l’élite bianca del Sud tentò di motivare la rottura con il Nord ponendo la questione dell’autogoverno e della difesa delle prerogative degli Stati Confederati rispondendo, in tal maniera, all’aggressione degli Stati dell’Unione. Levine osserva anche che la cessazione della schiavitù non era tra gli obiettivi iniziali della guerra contro Dixie. Negli Stati del Nord, la preoccupazione principale era quella di ricondurre la ribellione all’interno dell’Unione nel tentativo di intraprendere un percorso di riconciliazione con l’élite bianca del meridione. Gli eventi precipitarono solamente dopo la sanguinosa battaglia di Antietam del 17 settembre 1862 e il fallimento della prima invasione del Nord da parte delle truppe del generale Lee.
Nel tentativo di indebolire il nemico, il Presidente Lincoln prese in seria considerazione l’abolizione della schiavitù colpendo in tal maniera la principale risorsa economica del Sud e cercando di volgere a proprio favore gli accadimenti bellici.
Ecco allora il Proclama di emancipazione visto come un utile chiavistello per sconfiggere gli Stati Confederati e presentato come il passo decisivo per abolire la “peculiare istituzione”. Con la sconfitta sudista a Gettysburg, con l’avanzata di Sherman nella campagna occidentale e la conquista di Atlanta il 22 luglio 1864 e con le continue battaglie tra Grant e Lee nello scenario virginiano, divenne chiaro come le sorti del Sud fossero ormai segnate. Era il declino della società meridionale e dello stile di vita delle élite bianche confederate, tutto ciò che Katherine Stone nei suoi diari definiva, con una punta di nostalgia, “nobile e cavalleresca”.
Le conclusioni di Levine
Quando la guerra finì, più di 600.000 uomini erano morti e gli Stati Uniti erano cambiati per sempre. Il conflitto – rileva Levine – aveva scosso dalle fondamenta il vecchio mondo del “deep South” e si apriva una nuova fase storica che avrebbe portato la giovane nazione americana a diventare protagonista del secolo successivo, quel paese in cambiamento così ben descritto da Sherwood Anderson nel suo romanzo Un povero bianco. In sintesi, scrive Levine, “la guerra civile americana è stato scritto per aiutare a colmare questa lacuna nella nostra memoria collettiva. Ne ripercorre le origini e traccia l’evoluzione della ‘seconda rivoluzione’ americana, spiegando perché è avvenuta e come si è svolta e soprattutto come da questa guerra dura e atroce sono state scalzate le fondamenta economiche, sociali e politiche del vecchio Sud, mettendo fine alla schiavitù e al mondo leggendario dell’élite che su di essa prosperava”.