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Il Merengue, non soltanto “vida amor y baile”

Se è vero che quasi tutta la vita degli abitanti della Repubblica Dominicana si svolge a ritmo del merengue diffuso dagli immancabili apparecchi radiofonici che si trovano ovunque, è altrettanto vero che questa sorta di fiesta ininterrotta trova il suo culmine il 15 luglio di ogni anno con il classico Festival del Merengue. Forse è meglio usare l’imperfetto e dire che “trovava” perché nel corso degli anni la festa s’è dilatata fino a occupare gran parte del mese di luglio.

Un tempo che cambia

Originariamente la musica Merengue era scritta in un tempo di 2/4, ma negli anni si trasforma in una musica in 4/4. Dal punto di vista ritmico è simile alla marcia, con misure praticamente identiche a quelle del samba. La sua prima codificazione sistematica risale all’inizio del Novecento quando un gruppo di musicisti della Ausonia, la più antica casa editrice musicale di Santo Domingo, ne scrive le regole principali. In quell’epoca la formazione tipo di una band merenguera è composta, oltre che da un cantante, da tre strumenti: organo, tambora e güira, (uno strumento simile a una “grattugia”, tutt’ora utilizzato nelle sezioni ritmiche afrocubane). Negli anni Trenta l’incontro con il jazz nordamericano ne determina la definitiva svolta orchestrale, proprio come successo per il mambo negli anni Quaranta e Cinquanta. Il merengue e i balli latini in genere sono entrati da qualche anno nell’immaginario collettivo del popolo italiano. Sembrano dotati di un potere quasi magico di coinvolgimento, di una forza trascinante e taumaturgica, vista la capacità di rigenerare, a volte, interpreti che attraversano un periodo difficile dal punto di vista commerciale.

Una storia fuori dalla retorica

Nelle patinate immagini diffuse dai media evocano sole, spiagge, palme, mare, costumi da bagno, banalità estive e vengono consumati con la stessa velocità di un gelato. Per chi volesse ascoltarla, però, raccontano anche una storia di dolore. Dietro al piede trascinato sul quale si muovono ondeggiando i fianchi dei ballerini c’è una storia tremenda di schiavitù e prevaricazione. Quel passo danzato evoca lunghe file di schiavi neri strappati a forza dalla natìa Africa e deportati nell’area caraibica per svolgere lavori che né i proprietari terrieri spagnoli, né gli indigeni potevano fare: i primi perché non glielo permetteva il loro rango e i secondi perché, dopo le stragi e le epidemie seguite alla conquista e alla colonizzazione, erano quasi totalmente scomparsi. Nel XVI secolo sono gli uomini e le donne dalla pelle nera sbarcati dalle grandi navi transoceaniche dell’epoca per “cortar las cañas”, tagliare le canne da zucchero, a ispirare e, talvolta, a inventare per primi il merengue e i mille altri passi oggi raggruppati nella generica definizione di “balli caraibici” o “afrocubani”. Provate a pensarci. Ci vuol poco a immaginare perché il piede sinistro dei ballerini non possa muoversi liberamente. Il suo strisciare è simile a quello di chi ha la caviglia legata a una pesante catena ed è costretto a trascinarsi dietro il piede evitando movimenti bruschi e dolorosi. I passi base del merengue, quindi, sono gli stessi della lunga fila di uomini e donne costretti a spostarsi con movimenti trascinati e cadenzati dal ritmo monotono e ossessivo di uno strumento a percussione che scandisce il ritmo di un lavoro senza tempo. Altro che mare, sole e musica! Gli elementi fondativi e strutturali di questi balli sono il battito del tamburo che dettava il passo del lavoro e la catena con la quale ogni tagliatore di canna era legato al compagno di sventura.

 

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