Una notizia sorprendente che apre le porte a molte scoperte future, quella pubblicata sulla rivista Biogeosciences: i tartufi, contrariamente ad altri funghi, non accumulano radioattività. La ricerca è stata effettuata dal gruppo coordinato da Ulf Buntgen, dell’Istituto Federale di ricerca svizzero (Wsl).
I tartufi impermeabili alla radioattività
Analisi condotte sui tartufi dell’Europa centrale, dove 30 anni fa avvenne l’incidente nucleare di Chernobyl che liberò una nube radioattiva rilasciando grandi quantità di cesio 137, hanno evidenziato che i tartufi non contengono tracce della sostanza e possono essere consumati in tutta sicurezza al contrario, ad esempio, dei funghi porcini.
Buntgen sottolinea infatti come sia ”sorprendente che tutti i campioni analizzati non abbiano evidenziato significanti livelli di cesio 137′‘. Il risultato di questa scoperta ha lasciato spiazzati gli autori della ricerca, soprattutto a causa della natura stessa dei tartufi che crescono sottoterra e si nutrono delle varie sostanze rilasciate dal terreno. La ricerca è stata effettuata proprio nelle regioni in cui più intensa è stata la contaminazione radioattiva: nella zona in questione infatti, i livelli di cesio 137 sono ancora molto alti e non solo nei funghi, ma in tutti i componenti della catena alimentare, principalmente nella carne di selvaggina come quella di cervo e di cinghiale.
La scoperta lascia aperte le porte a molti interrogativi, dato che non è ancora chiaro il vero motivo per il quale i tartufi siano praticamente ‘impermeabili’ alla contaminazione radioattiva. I ricercatori sottolineano quindi la necessità di ulteriori ricerche per comprendere a fondo il fenomeno.
Lo studio ha preso in considerazione 82 tartufi di Borgogna, appartenenti alla famiglia del tartufo nero estivo (Tuber aestivum) e che sono stati raccolgono in tutta Europa (Svizzera, Germania, Francia, Italia e Ungheria) tra il 2010 e il 2014. Le analisi relative a tutti i campioni, mostrano livelli di radioattività trascurabili (2 becquerel per chilogrammo) ben al di sotto del valore di tolleranza (600 becquerel per chilogrammo). La prima cosa che salta agli occhi quindi è la possibilità di consumo sicura al 100% anche nelle zone dove i campioni sono stati raccolti.
Fonte: ANSA