È una parola che abbiamo imparato a conoscere sin da bambini per indicare un qualcosa di estremo, di folle. È una parola che è entrata nel gergo comune, se solo pensiamo a come viene definita una delle uscite più spericolate di un portiere durante una partita di calcio. Ed è una parola che ha ispirato anche alcune canzoni di successo come Eroi nel vento dei Litfiba. Stiamo parlando dei Kamikaze giapponesi, i piloti suicidi che si lanciavano contro le navi americane durante la Seconda Guerra Mondiale quando le sorti del conflitto erano già segnate. Ma le cose stanno realmente così? Oppure abbiamo avuto un’idea non sempre corretta sul Kamikaze giapponese? È l’interrogativo da cui è partito il giornalista Daniele dell’Orco per ricostruire l’intera storia, prima di tutto da un punto di vista linguistico e culturale, nel suo ultimo libro Non chiamateli kamikaze (Giubilei Regnani, 2017).
E se i Kamikaze non fossero quello che abbiamo imparato a conoscere?
Daniele, hai da poco dato alle stampe il tuo ultimo libro, Non chiamateli kamikaze, con il quale stai cercando di fare un po’ di chiarezza terminologica su alcuni aspetti storici che abbiamo imparato a conoscere, probabilmente, in maniera non corretta. Partiamo da tre parole fondamentali: Tokkotai, Jibaku Tero e Kamikaze.
Tokkotai è una abbreviazione che semplifica la locuzione di carattere tecnico-militare tokubetsu kōgeki-tai, che letteralmente significa “unità speciale d’assalto”, a riprova del fatto che il corpo dei Kamikaze fosse il primo ideato e organizzato allo scopo bellico di infliggere danni al nemico tramite il sacrificio della vita. La stessa espressione Kamikaze , che si compone dei kanji “vento” (Kaze) e “divinità” (Kami) ha sì un riferimento storico e tradizionale, indicando il tifone che nel 1281 impedì ai mongoli di invadere il Giappone, ma è in realtà una lettura dei kanji, in un certo senso quasi “spuria”. I giapponesi dell’epoca gli preferivano shimpu, che vuol dire allo stesso modo “Vento Divino” ma in una accezione più metaforica e meno letterale. Proprio per via dell’assenza di qualsiasi mistica negli attentati terroristici, di matrice islamica ma non solo, che si sono susseguiti negli ultimi quarant’anni, la stampa giapponese non ha mai fatto ricorso al termine shimpu, o Kamikaze , per descriverne la forma. Jibaku Tero, invece, è anch’essa un’abbreviazione di una locuzione anglo-giapponese, jibaku terorisuto, che vuol dire banalmente “terroristi auto-esplodenti”.
Specie nel dibattito contemporaneo, si tende a definire un Kamikaze qualsiasi soggetto che compie un atto di terrorismo. Eppure diversi studiosi hanno evidenziato già da tempo le differenze culturali tra le gesta dei piloti giapponesi durante la seconda guerra mondiale e gli atti di terrorismo compiuti dai “martiri” dell’Islam. Sarà il caso di ricordarle in questa sede?
Nel volume cerco di tracciare delle distinzioni che non siano solo filosofico-religiose ma anche pratiche: in termini di addestramento (gli jihadisti preparano da mesi i candidati avvicinandoli il più possibile alla morte; i giapponesi, anche di religione cristiana, avevano invece come ideale l’esaltazione della vita), in termini di selezione dei potenziali suicidi (scelti tra i disperati animati dal desiderio di vendetta o di dare un senso alla propria esistenza; i giapponesi, invece, erano prima di tutto soldati, e poi volontari) e in termini di tattica militare. Basta prendere, come esempio, l’uomo bomba che, davanti al portone dell’Intercontinental di Kabul nelle scorse settimane, si è fatto saltare in aria come “ariete” per permettere al commando di terroristi di fare irruzione nell’hotel. Il ruolo dell’uomo si riduce né più né meno a quello di una bomba intelligente. Ma con gli esempi si potrebbe continuare per ore…
Per comprendere meglio questi tratti del costume giapponese, forse dovremo approfondire anche alcuni concetti fondamentali della cultura del Sol Levante come il senso dell’onore e del sacrificio per il Paese fino al gesto estremo di togliersi la vita…
In Oriente, prima di tutto, si dà un valore alla vita diverso dal nostro. Un aspetto che unisce le morti in guerra, i suicidi individuali, i suicidi di massa.
In Occidente, pervasi da millenni di influenza cristiana che afferma il primato di Dio sulla vita condannando il suicidio, e che solo in alcuni casi accoglie la morte volontaria come esempio di martirio, tendiamo a considerare un suicida come qualcuno che disprezza e calpesta il dono della vita. Per un giapponese, invece, il concetto di privazione è centrale; nelle piccole comodità quotidiane come nel più estremo dei casi che è appunto il suicidio. È la rinuncia alla propria vita che dà valore all’esistenza, anche in una chiave estetica. Basti pensare al meticoloso suicidio rituale, il seppuku, che l’Occidente ha conosciuto nel modo più scioccante e spettacolare grazie a Yukio Mishima, che lo eseguì in diretta tv il 25 novembre 1970.
Vuoi illustrarci meglio cos’è lo Yasukuni?
Il santuario di Yasukuni è il simbolo della cultura nipponica per quanto riguarda la celebrazione della giapponesità in guerra. Nel Sol Levante un caduto a difesa della patria, che abbia sacrificato la propria vita per difendere l’onore della propria famiglia, della propria terra e dell’Imperatore, merita il cordoglio popolare a prescindere che abbia combattuto dalla parte “giusta” o “sbagliata” di un conflitto. Per questo a Yasukuni sono sepolti due milioni e mezzo di uomini e donne periti per il Giappone, anche taiwanesi o coreani. E persino, ed ecco da dove nascono alcune controversie, quattordici criminali di guerra di “Classe A”, ossia quelli che durante il processo di Tokyo vennero condannati per crimini contro la pace. Al di là dell’aspetto bellico, in Giappone si celebrano in generale tutte le morti in battaglia che abbiano rispettato la “Via del guerriero”, con un’attenzione particolare verso i caduti in battaglie disperate, o addirittura già perse. Il più celebre tra questi è Saigo Takamori, l’ultimo samurai ritratto persino dai film hollywoodiani, ma anche gli stessi kamikaze potrebbero rientrare facilmente in questa categoria.
Stai girando diverse scuole per presentare il tuo libro. La tua non è solo pura testimonianza culturale ma anche impegno diretto a ridare il giusto significato alle parole e a determinati fatti storici, sbaglio?
L’idea di partire da una banalizzazione lessicale è in realtà un modo per rendersi conto dell’attualità in cui viviamo cercando di leggere i fatti per quello che sono, pur in tutta la loro crudeltà. Una volta un ragazzo di un Istituto Superiore di Roma mi ha chiesto, a ragione, quale sia il limite entro cui poter riuscire a parlare dei guerriglieri suicidi che minacciano l’Occidente senza rischiare di fare il loro gioco, ossia creare terrore. Io potrei rispondere, invece, che riversarsi in massa nelle strade all’indomani di attacchi terroristici, più che simbolo di un popolo che non si arrende, è mera incoscienza. La mia idea è che solo conoscendo un fenomeno per quello che è, finanche nei suoi lati più oscuri, si possa riuscire a esorcizzarlo. La consapevolezza di qualcosa di terribile può far scattare delle contromisure adeguate. Prima dentro di noi, poi a livello politico e sociale.