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I Beatles e l’estate di Sgt. Pepper

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Beatles
La copertina del famoso album dei Beatles "Sgt. Pepper"

Traendo spunto da una considerazione che viene usata solitamente per sottolineare un qualcosa che è destinato a “spezzare” due differenti periodi storici, ci si può chiedere, anche in campo musicale, se un solo disco possa riassumere in sé tutto lo spirito della propria epoca e cambiare definitivamente le modalità di comporre musica? La risposta è senza dubbio affermativa quando si parla dei Beatles e specie se si intraprende la lettura di L’estate di Sgt. Pepper (La Lepre Edizioni, 2013) versione italiana di Summer of Love – The making of Sgt. Pepper di George Martin, grazie alla traduzione del direttore del mensile Chitarre Paolo Somigli e con la prefazione di Stefano Bollani.

I Beatles in una nuova dimensione

Gli anni ’60 e il preludio a Sgt. Pepper

Il libro di George Martin non si limita solamente alla cronaca dei fatti che portarono alla realizzazione di un album considerato fondamentale per la storia della musica ma è un vero e proprio spaccato sociale e culturale della metà degli anni ’60, un mondo dove “i B52 delle forze aeree statunitensi ogni giorno riversavano 800 tonnellate di bombe sul Vietnam del Nord, le Guardie Rosse tenevano l’intera Cina per la gola e il popolo Ibo del Biafra moriva di fame, quando non veniva massacrato. Ma nel mio ufficio, negli studi di Abbey Road nella zona ovest di Londra, vedevo solo migliaia di persone che parlavano esclusivamente di Pace e Amore”. Sono mesi di duro lavoro per i Beatles, un periodo in cui, tuttavia, Lennon, McCartney, Harrison e Starr producono un album destinato a segnare la storia un’intera generazione; e dove il loro “angelo custode”, George Martin appunto, è lì a consigliarli, a incoraggiarli e, come scrive Stefano Bollani nella prefazione, “a proteggerli dal rischio di pubblicare un minestrone colmo di informazioni, un piatto con troppi sapori che finisce per essere stomachevole, un romanzo con troppi personaggi, incapace di tenere costante l’attenzione del pubblico”.

Narra Martin che, durante quei mesi del 1966, affiorò nei Beatles una certa stanchezza riguardo l’eccessivo numero di esibizioni live da sostenere e si fece pressante la necessità di staccare letteralmente la spina. Questa pausa di riflessione fu l’occasione giusta per Lennon e compagni per “studiare” la loro musica e per approfondire il proprio stile compositivo. Anche i testi subirono una profonda trasformazione con l’abbandono di certi motivi tipicamente da teen-ager per abbracciare liriche più ricercate, esperienze più profonde oppure eventi della quotidianità realmente vissuti dai Fab Four. Da tutta questa fase di studio e ricerca, nacque una produzione innovativa sia dal punto di vista del suono che del contenuto e dove la musica pop, come sottolinea lo stesso Martin non senza una punta di nostalgia nel rievocare quel periodo, iniziò ad acquisire una propria statura come genere musicale: “I Beatles avevano cominciato a farsi beffe di tutte la regole precedenti in fatto di musica pop e questo mi permise di essere totalmente libero di fare ciò che più amavo: sperimentare, costruire immagini sonore, creare un’atmosfera particolare per una canzone, tutte cose che da sempre avevo desiderato fare. Il nostro fu un ‘matrimonio’ molto felice. Non dovevo chiedere permessi a nessuno: era meraviglioso avere quell’autonomia, quel potere”.

Il primo concept album della storia della musica

Come viene spesso sottolineato dai critici musicali, Sgt. Pepper dei Beatles costituisce il primo concept-album nella storia della musica; un disco dove era possibile rintracciare un filo conduttore che legava tutti i pezzi che lo componevano e che, al tempo stesso, poteva rappresentare una sorta di veicolo commerciale permanente. Martin evidenzia quest’aspetto proprio mentre fervono le discussioni tra i membri dei Fab Four che si chiedono: “Perché non facciamo un album che sia una specie di show e non lo spediamo in tour al posto nostro?”. E lo stesso Martin coglie l’occasione per spiegare meglio quale sarebbe stata l’idea base di Sgt. Pepper: “C’era un’unica cosa sulla quale tutti e quattro i Beatles erano assolutamente d’accordo: ogni singolo elemento dell’album avrebbe dovuto costituire un valore aggiunto per l’intero progetto. Dalle canzoni alla copertina alla produzione tecnica, tutto doveva contribuire a creare qualcosa di totalmente differente, e di assoluta eccellenza”. In quest’ottica, anche la sequenza dei pezzi nella versione finale dell’album, ordine deciso dallo stesso Martin, doveva contribuire a dare a Sgt. Pepper dei Beatles quell’originalità e quella “magia” che tutti noi oggi conosciamo. Nel momento in cui si inizia l’ascolto del disco, sembra proprio di essere entrati in un teatro: c’è il rumorio del pubblico che prende lentamente posto, i musicisti che stanno accordando i loro strumenti e le ultime rifiniture alla scenografia del palco.

Ed ecco che lo show della Sgt. Pepper’s lonely hearts club band parte con l’omonima title-track dal sapore molto rock che presenta la band e lascia successivamente il posto, senza alcuna discontinuità sonora, alle qualità di vocalist di Ringo Starr con With a little help from my friends. Segue la celeberrima Lucy in the sky with diamonds di Lennon, dove alcune interpretazioni hanno voluto vedere nelle iniziali delle parole (Lsd), un’allusione all’uso di sostanze allucinogene mentre è McCartney a siglare la quarta e la quinta traccia, Getting better e Fixing a hole, che prendono entrambe spunto da episodi accaduti nella vita quotidiana di Paul. Se She’s leaving home, sempre opera di McCartney e sempre ispirata alla realtà di tutti i giorni (la notizia della fuga da casa di una ragazza letta sul Daily Mirror), riflette sulle incomprensioni tra generazioni particolarmente avvertite negli anni ’60, Being for the benefit of Mr. Kite! di Lennon, trae spunto dalla visione di John di un vecchio manifesto circense ed ha il pregio di far percepire all’ascoltatore la sensazione di essere circondato da clown, trapezisti e giocolieri. George Harrison firma il suo unico contributo in Sgt. Pepper con Within you without you, un pezzo a sé nell’architettura del disco in quanto palesemente influenzato dalla musica e dalla filosofia indiana di cui Harrison rimase sempre seguace mentre è McCartney a firmare When I’m sixty-four, dove il motivo principale sembrerebbe essere legato al timore d’invecchiare dello stesso Paul. Ed è sempre del bassista dei Beatles la successiva traccia, Lovely Rita, ispirata alla vicenda di una vigilessa che aveva multato McCartney poco tempo prima. È Lennon, invece, a scrivere Good Morning, Good Morning dove pare che il chitarrista dei Fab Four, abbia tratto spunto dalla pubblicità dei cornflakes Kellog’s. Sgt. Pepper si avvia verso la conclusione con la reprise del brano che ha aperto il disco seppur con alcune differenze; come è stato evidenziato da alcuni critici, la reprise è una sorta di “fulmine a ciel sereno, un coup de theatre costruito intelligentemente e senza il quale l’intuizione dell’album avrebbe perso consistenza”. È il momento del commiato della band dal pubblico con l’ultima traccia A day in the life, riconosciuta universalmente come uno dei momenti più alti per lo stile compositivo dei Beatles.

Dopo Sgt. Pepper, per i Beatles nulla fu più come prima

Il libro si avvia verso le sue ultime pagine, il 1967 s’avvicina e accadono una serie di eventi destinati a cambiare per sempre le cose: George Martin diventa papà, tra i Beatles cominciano ad affiorare diverse visioni sulla musica e il loro storico manager, Brian Epstein, muore improvvisamente. Ma intanto Martin e i quattro ragazzi di Liverpool hanno inciso un disco fondamentale per la loro carriera e per la storia della musica: “Il merito fondamentale di Pepper fu quello di riuscire a raccontare perfettamente la sua epoca, cogliendo l’essenza degli anni Sessanta e di gran parte di ciò che caratterizzò quel periodo: la psichedelia, le mode, la passione per le filosofie orientali, la pace e l’amore, il movimento pacifista; era tutto lì dentro, insieme a molto altro”. A parte alcune voci discordanti, la critica musicale accolse entusiasticamente il nuovo lavoro dei Beatles. Guy Aston scrisse che i Fab Four “erano sempre stati l’espressione di un mondo di adolescenti […] qui essi assumono volontariamente il ruolo che in un primo tempo era stato loro imposto dalla stampa, quello di capi spirituali. Sgt. Pepper è per molti aspetti un disco didattico per il pubblico […] nelle canzoni che compongono l’album, i Beatles cercherebbero di insegnare una via per ‘migliorare la vita’ e ‘diminuire la solitudine’ […] attraverso vari atti di liberazione psicologica, imparando ad avere visioni, ad amare”. Poco tempo dopo la sua pubblicazione, Sgt. Pepper era già entrato a far parte dell’immaginario collettivo di una generazione, a divenirne un’icona e a rappresentare un modello da seguire per tutti gli altri musicisti. Nel 1967, i Beatles avrebbero inciso un nuovo album, Magical Mystery Tour ma questa è un’altra storia.