Il 25 luglio 1890 a Villa S. Giovanni, in provincia di Reggio Calabria, nasce Aurelio Cimato, in arte Gabré, uno dei personaggi di spicco della canzone italiana degli anni Venti e Trenta.
Un nome d’arte per evitare ritorsioni
Come accade per suo fratello Michele, in arte Miscel, gran parte della sua vita è sconosciuto per la necessità di sfuggire alle ire e alle possibili ritorsioni della famiglia da cui i due ragazzi fuggono giovanissimi per tentare la carriera artistica e con la quale non si riconciliano mai più. Il suo debutto nel mondo dello spettacolo avviene il 19 aprile 1913 al teatro Maffei di Torino e l’anno dopo è tra gli artisti scelti per la Piedigrotta “Poliphon”. Il suo periodo “napoletano” tocca l’apice alla fine del decennio quando interpreta canzoni come Napule! scritta appositamente per lui da Murolo e Tagliaferri, autori anche della successiva Piscatore ‘e Pussileco, e Brinneso firmata da Bovio e Valente nel 1922 e interpretata per la prima volta in pubblico dal grande Gennaro Pasquariello. Alla fine degli anni Venti diventa uno degli interpreti più popolari della canzone cosiddetta “realista”. In molti scrivono per lui ma la maggior parte dei suoi successi nasce dalla geniale creatività di Cesare Andrea Bixio e di Bixo Cherubini. Nel 1928 viene scritturato dalla prestigiosa etichetta Parlophon, succursale italiana dell’inglese Parlophone, il cui nome perde le “e” finale per esigenze di “italianizzazione”. Nonostante il grande successo non riuscirà mai a entrare nel ristretto gruppo di cantanti scritturati dall’EIAR, l’ente radiofonico nato in quel periodo. Interprete raffinato si fa particolarmente apprezzare per il garbo e la misura delle sue esibizioni dal vivo. Muore a Prato nel mese di marzo del 1946.
Un abile navigatore tra i generi
Alla vigilia degli anni Venti, quando Gabré con la sua voce da tenore leggero comincia a muovere i primi passi sul palcoscenico, nel mondo della canzone i “tenorini” abbondano. Non tutti sono fenomeni, anzi, per molti di loro la canzone rappresenta un ripiego dopo aver tentato senza successo di sfondare nella lirica, ma l’eccessivo affollamento rende difficilissima la vita agli ultimi arrivati. Per emergere bisogna essere dotati di qualità molto superiori alla media oltre che di una tempra da lottatore. In pochissimi riescono a lasciare un segno destinato a durare nel tempo. Gabré è uno di loro. Abile navigatore tra i generi passa senza troppi problemi dalle canzoni del varietà al repertorio napoletano alle nuove aperture nei confronti dei ritmi arrivati dall’altra parte dell’oltreoceano grazie alle orchestre che suonano sui transatlantici.
L’eleganza del minimalismo
Riesce a percorrere una strada personalissima in un periodo delicato e ricco di contraddizioni nel quale le languide e peccaminose canzoni del “tabarin” stanno per essere soppiantate nel gusto del pubblico dalla robusta retorica della canzone cosiddetta “realistica”, più gradita al regime fascista. La sua è un’adesione artistica, non “ideologica”. Il suo rapporto con il regime è di contiguità occasionale più che di convinta complicità, tanto è vero che non rinuncia a qualche divagazione in chiave swing alla fine degli anni Venti nonostante il genere inizi a essere mal tollerato dalla censura. Il suo rapporto con quel tipo di canzone si esaurisce per stanchezza, perché non ne può più di raccontare storie di vizi e perdizione e prova più soddisfazione a misurarsi con brani più vicini ai veri sentimenti della gente. Le sue canzoni e anche il suo modo di proporsi al pubblico, gentile, garbato ed elegante, fanno di lui uno dei primi “minimalisti” della storia della canzone italiana.