Dopo il Leone d’oro conquistato a Venezia con Sacro Gra nel 2013, Gianfranco Rosi ha ricevuto per Fuocoammare l’Orso d’oro come miglior film all’ultimo Festival di Berlino.
È bello vedere trionfare opere come queste, in primo luogo perchè ci ricordano che il cinema conosce territori espressivi di tanti tipi diversi, e non soltanto quello della finzione.
Quando ci troviamo di fronte ad un film di finzione le nostre aspettative sono orientate al “consumo” del prodotto cinematografico: che si tratti di un film d’autore o di un blockbuster, quello che vogliamo dal film è vedere accadere qualcosa. Vogliamo che il cerchio della narrazione possa chiudersi in un tempo cinematografico definito. Quando invece assistiamo ad un film documentaristico sappiamo di trovarci di fronte alla realtà e ci predisponiamo all’osservazione e all’ascolto. Il tempo cinematografico si dilata, e lo spettatore condivide la stessa esperienza del regista, quella dell’attesa: come il regista ha pazientemente aspettato che la realtà gli desse un cenno di presenza, così lo spettatore aspetta di veder comparire quel cenno sul grande schermo.
Rosi racconta Lampedusa e i migranti da cineasta assoluto, tenendo contemporaneamente le redini della regia, della fotografia e del suono, e realizzando immagini belle, forti e cariche di suggestione.
Fuocoammare, il viaggio epico dei migranti
Fuocoammare è strutturato sulla base dell’alternanza tra l’immobilità delle vicende dei lampedusani e il tragico dinamismo di quelle dei visitatori, i migranti sui barconi della morte.
Da un lato si viene travolti dalle immagini che testimoniano l’epopea dei migranti e ricostruiscono tutta la filiera del loro salvataggio, dalla ricezione del disperato SOS al recupero dei corpi in mare aperto – corpi ammassati e con un filo di vita (quando sono vivi) – dal riconoscimento a bordo delle navi militari allo smistamento a terra, fino al trasferimento nei centri di accoglienza, dove la vita può finalmente ricominciare, e vediamo i migranti costituire una microsocietà, divisi sulla base delle rispettive nazionalità ma uniti da un destino comune. Toccanti le reazioni di totale spaesamento di chi, avvolto in una coperta termica, realizza di avercela fatta ma di avere perso tutto, e di essere vivo ma senza i propri cari, lontani o periti nella traversata. Bellissima la manifestazione di dignità di un migrante nigeriano, che affida ad un canto liberatorio il racconto dell’epopea sua e dei suoi compagni: dal deserto alla Libia, dal mare a Lampedusa “sembrava impossibile ma noi abbiamo rischiato e ce l’abbiamo fatta, siamo vivi, siamo qui”. È un canto gioioso, un inno alla vita, nonostante tutto.
Dall’altro lato si viene accarezzati dal racconto di una placida quotidianità, quella degli abitanti dell’isola, che scorre indisturbata nella ritualità di cose sempre uguali fin dalla notte dei tempi: il sostentamento della pesca, il pasto della famiglia seduta a tavola, la venerazione dei Santi e dei defunti. Il tempo è talmente fermo a Lampedusa che il fuocoammare raccontato dalla nonna a Samuele, il bambino protagonista del film, non è quello dei barconi, ma quello che si vedeva durante la Seconda Guerra Mondiale. Persino Samuele, che rappresenta la speranza riposta nelle nuove generazioni, è bambino in mezzo agli anziani, non riesce a imparare l’inglese, sta facendo l’apprendistato da pescatore, e sembra trovare la sua identità nell’adesione incondizionata a ciò che è inscritto nel suo corredo genetico. Ma c’è un’ombra sulla sua serenità: Samuele è preoccupato, e va dal medico perché di tanto in tanto prova una sorta di affanno, un senso di ansia. Forse la ritualità dei gesti e dei discorsi di cui è circondato non gli basta più, forse la sua curiosità lo ha già spinto al di fuori del territorio che gli è familiare, ora è arrivato il tempo di aprire bene gli occhi – non a caso Samuele soffre di problemi di vista – e di avventurarsi in un altro mare pauroso, quello della vita. La porzione lampedusana del film contiene quindi un piccolo romanzo di formazione.
La cosa che colpisce di Fuocoammare è che le due linee di racconto non si intersecano mai. L’unica figura di raccordo è quella di Pietro Bartolo, il medico del luogo, animato da un autentico spirito umanitario, lo stesso che visita Samuele e che fa l’ecografia ad una migrante, scoprendola incinta di due gemelli. Per il resto le esistenze dei migranti e quelle degli autoctoni scorrono nettamente separate nella visione di Rosi, a sottolineare il clash culturale di due destini opposti. Si rimane straniati da questa assoluta incomunicabilità tra i due mondi, è l’unica cosa che non risulta “reale”, e solo riflettendo se ne comprende il senso. Quello che il film rappresenta non è la realtà di Lampedusa, dove l’interazione tra i due mondi è pane quotidiano, è il rischio politico che corriamo ogni giorno, il rischio che il nord del mondo si chiuda in se stesso lasciando i paesi del sud al loro destino di disperazione. Non sono certo i lampedusani, popolo di pescatori, a ignorare che cosa significa affrontare il mare aperto per garantirsi una vita dignitosa: ecco che, in questa prospettiva, le circostanze avverse possono toccare in sorte tanto ad una parte quanto all’altra, e tutto dipende dal momento storico. Come giustamente viene ricordato nel dibattito attuale, non sono lontani i tempi in cui i migranti erano italiani.
Ma soprattutto vale la pena ricordare un tassello fondamentale del nostro patrimonio culturale, un valore fondante che ci mette in immediata comunicazione con chi è solo apparentemente diverso da noi: fin dai tempi di Ulisse è il viaggio che ci rende umani.