Il 1° gennaio 1965 la rivista New Musical Express denuncia che, con pretesti artificiosi, il governo statunitense sta negando il visto d’ingresso nel paese a vari gruppi inglesi che si vedono costretti ad annullare tour già previsti.
Tutelare gli artisti USA
Di fronte all’annuncio, qualcuno pensa a uno scherzo dei redattori, ma la notizia è vera . Il Dipartimento Immigrazione degli Stati Uniti sta, infatti, cercando di limitare la “British Invasion”, cioè l’arrivo delle band britanniche con lo scopo apparente di tutelare gli artisti locali. In realtà si vuole bloccare l’ondata di rinnovamento che l’esplosione del “beat” sta portando non soltanto nella musica. Come tutti i provvedimenti restrittivi e censori è destinato al fallimento. Per la prima volta la musica è assurta a linguaggio universale e una nuova generazione sta tentando di irrompere sulla scena della storia.
La barriera si sgretola
Quello che in parte era già successo alla fine degli anni Cinquanta con il rock & roll, trova la sua esaltante continuità con un fenomeno come il beat e le successive evoluzioni. Le giovani generazioni iniziano a comunicare sulla stessa onda utilizzando la musica. Ben presto alle parole d’amore adolescenziale si sostituiscono contenuti diversi. Per la prima volta un comunista messo al bando dal maccartismo come Pete Seeger vede una sua canzone ai vertici delle classifiche di mezzo mondo, in Gran Bretagna si riciclano i più oltraggiosi interpreti del rock and roll statunitense, mentre l’opposizione alla guerra del Vietnam entra nelle canzoni e termini come “imperialismo” e “capitalismo” assumono in musica un’universale accezione negativa. Chiudere i confini non serve più.