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Edith Piaf, l’usignolo di Francia vola via

L’11 ottobre 1963, Edith Piaf, l’usignolo di Francia, apre le ali e vola via. Pochi mesi prima nonostante le precarie condizioni di salute, aveva voluto tenere un concerto all’Olympia programmato da tempo. L’ultimo.

Un interprete unica

Dopo la morte Edith entra nel mito. È stata unica nella sua capacità di trasmettere a così tante persone l’angoscia, la tristezza e la carica drammatica di un’esistenza vissuta come una corsa a ostacoli, ciascuno dei quali superato cedendo in cambio un pezzo di vita. Per Edith la versatilità vocale è un concetto complesso, è la capacità di fare della voce uno strumento espressivo quasi teatrale. Non è mai al servizio esclusivo degli autori delle canzoni, ma mette davanti a tutto la necessità di comunicare con il pubblico fino a travalicare, se necessario, anche il significato stesso delle parole, anche quando è lei stessa a scriverle. Non a caso Jean Cocteau disse di lei: «Senza la voce di questa piccola cantante Parigi cesserebbe di essere Parigi. Sono proprio voci come questa che ne interpretano l’anima poetica». L’intensità per lei è più importante del vocalizzo. Le sue radici sono dentro di lei e fanno parte della sua arte. Senza quelle radici non sarebbe quello che è

Una voce che racconta la storia del Novecento

La voce di Edith porta con sé gli echi della storia novecentesca, tormentata e drammatica di un continente ricco di conflitti, di slanci, di tragedie e segnato da due guerre devastanti. La sua stessa vicenda personale l’attraversa con rabbia e gioca, talvolta inconsciamente, a sfidare il potere. Dopo la promulgazione delle leggi razziali unisce la sua vita a quella del pianista ebreo Norbert Glanzberg e quando Broadway il pubblico la fischia apre le porte della sua camera d’albergo soltanto a Longuet, l’inviato di “Ce soir”, un quotidiano dell’area comunista. Il ricordo della Piaf appartiene alla strada, ai popoli della notte, a quella sterminata umanità che non la tradisce e non l’abbandona neppure di fronte all’ineluttabilità della morte. È questo il segreto di un’immortalità che non si alimenta di certezze, ma neppure di rimpianti o, peggio, di tardive abiure e pentimenti. Ciò che è stato e stato ed è importante proprio perché è parte di quello che si è oggi. Per questo, oggi come allora, la sua voce ci ricorda che: «Je ne regrette rien…»

 

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