Dailygreen

Due giorni per costruire il mito di Little Richard

Il 13 settembre 1955 Little Richard entra negli studi di registrazione J&M di New Orleans, accompagnato dal produttore Robert A. “Bumps” Blackwell. Da tempo alla ricerca di una precisa collocazione nel panorama musicale statunitense il cantante sembra destinato a un ruolo di secondo piano.

Richard non può essere ingabbiato

L’unico a credere nelle possibilità di questo ragazzone nero nato a Macon in Georgia è proprio Blackwell, convinto che fino a quel momento non sia mai stato messo nella condizione di esprimersi al meglio. «Richard è un artista spontaneo ed emotivo. Non può essere ingabbiato. Devi saperlo se vuoi lavorare con lui». Per questa ragione ha scelto gli studi di New Orleans, famosi nell’ambiente musicale perché il tecnico del suono, l’italoamericano Cosimo Matassa, odia qualunque aggeggio elettronico che non sia l’effetto eco. Ha poi voluto in studio gran parte dei musicisti che già hanno lavorato con un protagonista dell’epoca come Fats Domino, tra cui il batterista Earl Palmer e il sassofonista Lee Allen. Prima di iniziare le raccomandazioni di Blackwell al giovane Richard sono improntate a un unico concetto: «Lasciati andare. La musica nei dischi non può essere artificiale. Tutto ciò che farai verrà registrato direttamente, come se fossi in concerto. Il rock and roll è energia, non può essere ingabbiato, altrimenti è plastica, immondizia…».

Un brano leggendario

Negli studi J & M in due giorni di sedute Little Richard registrerà nove brani. Otto scompariranno nel nulla o quasi ma uno entrerà nella leggenda. È Tutti frutti una sorta di esplosivo nonsense il cui testo è stato costruito da Dorothy La Bostrie con un occhio al be-bop e l’altro alla lezione del movimento dadaista. Ci sarà anche chi, con molta fantasia e qualche problema psicologico irrisolto, citerà per oscenità questa canzone che resta fondamentalmente una lunga filastrocca senza alcun senso compiuto. Una cosa è certa: rispetto alla generalità dei brani del periodo appare decisamente innovativo e non solo per il testo. Anche dal punto di vista musicale non si può dire che rispetti i codici canonici di un brano di rock and roll dell’epoca. Non c’è la chitarra, relegata in un ruolo di accompagnamento ritmico, e tutto il peso della struttura strumentale ricade sul pianoforte. Il riff martellante, sottolineato dalla tastiera percossa da Richard in maniera distruttiva, e l’impeto vocale travolgente del cantante sulla oscura frase «awopbopaloobop alop bam boom” faranno entrare questo brano nella storia del rock e consegneranno la figura di Little Richard al mito. Due anni dopo, alla fine del 1957, il rocker all’apice del successo annuncia in Australia il ritiro dalle scene per dedicarsi interamente a Dio. Lo fa gettando i suoi gioielli nelle acque del porto di Sidney. Si iscrive poi all’Oakwood Adventurist, una scuola di studi biblici di Huntsville in Alabama, e diventa predicatore. Il fatto non sconvolge più di tanto la sua casa discografica che, con il materiale di studio, già registrato, ha altri singoli di successo da immettere sul mercato. Little Richard lascia il rock ‘n’ roll ma non interrompe il suo rapporto con la musica e pubblica una lunga serie di spiritual. L’avvento del beat e la ripresa di molti suoi brani da parte di gruppi emergenti lo indurranno a tornare sui suoi passi, convinto che in fondo si possa servire Dio anche cantando il rock and roll.

 

Exit mobile version