Il 23 luglio 1992 muore Arletty, una delle protagoniste, nel bene e nel male, dello spettacolo francese del Novecento.
Non voglio essere la madre di un soldato
Léonie Bathiat, la futura Arletty, nasce il 15 maggio 1898 a Courbevoie. Suo padre Michel lavora nell’azienda dei tram, mentre la madre, Marie Dautreix, fa la lavandaia. La sua vita trascorre apparentemente lineare con le emozioni e i sogni che caratterizzano l’adolescenza di migliaia di ragazze come lei. Le nubi che s’addensano sull’Europa, però, finiranno per cambiare in qualche modo il suo destino. Nel 1914 la guerra le porta via il suo primo amore. La morte di Ciel, cielo, come lei lo ha soprannominato per il blu intenso dei suoi occhi, la segna per sempre e l’accompagna per tutta la vita. «In quel momento ho deciso: non mi sposerò mai, non avrò alcun bambino perchè non voglio essere nè vedova di guerra ne madre di un soldato». Due anni dopo anche suo padre muore travolto da un tram del deposito dove lavora. A diciott’anni la ragazza cerca allora di darsi da fare come indossatrice a Parigi da Poiret con il nome d’arte di Arlette che viene poi viene modificato nel più esotico ed evocativo Arletty quando debutta in teatro. Per tutti gli anni Venti le sue canzoni e la sua straordinaria capacità interpretativa caratterizzano alcune tra le commedie musicali e le riviste di maggior successo. La popolarità di cui gode alla fine del decennio rende quasi inevitabile l’incontro con il cinema dove debutta nel 1930 e all’inizio degli anni Quaranta con Marcel Carné gira i due film destinati a regalarle l’immortalità artistica. Il primo è “L’amore e il diavolo”, girato nel 1942 con al fianco Alain Cuny e il secondo è “Amanti perduti” con Jean-Louis Barrault girato più o meno nello stesso periodo ma caduto sotto gli strali della censura degli occupanti nazisti e presentato al pubblico soltanto nel 1945 dopo la Liberazione.
La condanna e il ritorno
È all’apice del successo quando si ritrova in una sorta di girone infernale apparentemente senza uscita. Nell’estate del 1944, subito dopo la liberazione di Parigi, Arletty viene catturata e rinchiusa nel campo di prigionia di Drancy. L’accusa che le viene rivolta è la più infamante: collaborazionismo con le forze di occupazione naziste. In realtà la sua colpa vera è quella di essersi innamorata di un ufficiale tedesco di stanza nella capitale, ma il tribunale è inflessibile. Dopo 120 giorni nel carcere di Fresnes sconta un paio d’anni di libertà vigilata con l’impegno di stare lontana da Parigi. Gli amici però non l’abbandonano, neppure quelli più impegnati politicamente, a partire da Jacques Prévert. Capiscono che la sua colpa è stata soltanto quella d’innamorarsi e l’aspettano. Scontata la pena, a partire dal 1947 Arletty torna a lavorare, soprattutto in teatro dove ritrova il suo pubblico e l’antico successo. Quando nella sua vita tutto sembra tornato a posto, il destino ha in serbo un’altra brutta sorpresa. Arletty viene colpita da una grave forma di cecità progressiva. Lei reagisce con l’energia di chi è abituato a far fronte alle avversità, ma pian piano finisce per arrendersi all’ineluttabile. Nel 1962 chiude con il cinema interpretando “Viaggio a Biarritz” diretto da Gilles Grangier. Nonostante la perdita della vista lavora ancora in teatro per qualche anno prima di lasciare definitivamente le scene. Il suo ritiro non assume mai le caratteristiche dell’abbandono. Negli anni seguenti resta in contatto con il pubblico rilasciando interviste, raccontando la sua vita e commemorando gli amici scomparsi. L’unica regola che si dà è quella di apparire il meno possibile in video, anche per lasciare ai suoi ammiratori l’immagine splendida degli anni migliori.