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Ai System Of A Down non importa nulla di quel che pensa Bush

Considerati da molti giornali musicali la band del 2002 i System Of A Down con una lunga intervista rilasciata il 4 gennaio 2003 fanno sapere che a loro non importa nulla di quello che pensa Bush di loro e della loro musica.

Tre milioni di copie

In effetti è difficile bombardare un gruppo capace di vendere ben tre milioni di copie in un periodo in cui chi arriva a un milione si segna con il gomito, ma non è da escludere che alla Casa Bianca decisionista e texana di quel periodo qualcuno abbia anche pensato di far loro qualche brutto scherzo. “Loro” sono i System Of A Down, una band dai suoni cattivi composta da quattro ragazzi d’origine armena che sta mettendo a soqquadro la scena musicale statunitense con canzoni che invitano a darsi una mossa per «fottere il sistema». Il loro successo mette in allarme il tranquillo mondo del music business. In una nazione attraversata da un’ondata di orgoglio nazionalista dopo l’11 settembre 2001, i ragazzi pubblicano un brano intitolato A.D.D.(American Dream Denial (Rifiuto del sogno americano) e urlano il loro dissenso con strofe che recitano «Ce ne fottiamo del vostro mondo con i vostri profitti globali…». Il problema per il sistema non è tanto in quello che dicono, ma nell’incredibile successo di vendita che fa pensare quanto i loro ragionamenti siano condivisi da una larga fetta di giovani statunitensi. Pur non essendo dei novellini (a parte il chitarrista Daron Malakian, ventisettenne, gli altri tre sono più vicini ai quarant’anni che ai trenta), la loro storia comune inizia solo nel 1993 a Los Angeles quando proprio Daron Malakian incontra in uno studio di registrazione a il cantante Serj Tankian. Entrambi militano in formazioni diverse, ma da quel momento decidono di unire gli sforzi in un progetto comune cui danno il nome di Soil. Per qualche tempo si adattano a fare i conti con una formazione variabile, ma nel giro di un paio d’anni finiscono per trovare un equilibrio definitivo con Shavo Odadjian al basso e John Dolmayan alla batteria. Proprio in quel periodo arriva anche il nuovo nome. Muoiono i Soil e nascono i System Of A Down, (il nome è ispirato a una poesia di Daron, intitolata “Victims of a Down”) la prima band armena capace di ottenere una nomination ai Grammy Awards.

Riconoscere, restituire, riparare…

Il loro rock duro, imbevuto di suoni degli anni Settanta, prende però le strade dell’oriente. Se è vero che la struttura dei loro pezzi è quella classica di quattro quarti, è altrettanto vero che le sonorità sono ampiamente debitrici nei confronti delle suggestioni mediorientali. È sufficiente ascoltare Bubbles, uno dei brani di Steal this album! per rendersi conto che la chitarra di Daron suona come se fosse un bouzouki. Nelle loro esecuzioni c’è l’angoscia dell’esilio, ma anche la voglia di non considerare finita la partita, come raccontano in P.L.U.C.K.: «Un completo genocidio razziale/Ha cancellato il nostro orgoglio…» ma «…ora è il tempo della resa dei conti/Riconoscere, restituire, riparare…» altrimenti è tempo di «…rivoluzione, l’unica soluzione/La risposta armata di un’intera nazione…». È evidente che il music business USA non si senta troppo tranquillo quando tipetti come questi dimostrano di saper conquistare una fetta di consenso inimmaginabile. Figuriamoci poi in un periodo in cui la bandiera a stelle e strisce viene innalzata per una nuova guerra e loro dicono di essere stanchi di bombe e in Boom cantano «…l’unico obiettivo è il denaro/A nessuno importa un accidente se adesso muoiono di fame 400 bambini/mentre si spendono miliardi in bombe per piogge mortali…»

 

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