Il 10 maggio 1963 sei ragazzi provenienti dai club jazz e rhythm and blues delle periferie londinesi entrano negli Olympic Studios della Decca a Londra per registrare qualche brano. Nessuno può immaginare che in quel giorno sta iniziando il lungo viaggio del lato “sporco” del beat, quello più mescolato con la musica nera che si contrapporrà, nell’immaginario collettivo, al pop pulito, rispettoso ed educato dei Beatles.
Un venditore di gelati, un aspirante architetto, un manovale studente d’arte, un rappresentante di commercio e un grafico
Il loro ingresso negli asettici studi della Decca, una casa discografica che fino a quel momento ha costruito le sue fortune quasi esclusivamente sulla musica classica, è frutto di una serie di coincidenze: l’insistenza di Andrew Loog Oldham, un ragazzo come loro autonominatosi manager del gruppo, la curiosità degli ambienti discografici verso le note che emergono dalle cantine e, soprattutto, la paura della stessa Decca di ripetere l’errore già fatto qualche mese prima con i Beatles, scartati perché “senza futuro”. C’è diffidenza nei confronti del gruppo e non completamente ingiustificata. La formazione che si presenta con l’aria assonnata e un po’ stropicciata negli studi di registrazione il 10 maggio, infatti, ha alle spalle non più di dieci mesi di vita e una breve gavetta in una dozzina di locali di jazz e rhythm and blues della capitale britannica. L’anima del gruppo è Mick Jagger, uno studente che canta e suona l’armonica dotato di un precoce talento commerciale al punto da vendere gelati davanti alla scuola che frequenta. Al suo fianco ci sono l’aspirante architetto Brian Jones, polistrumentista nonché finanziatore degli impianti della band e figlio di un conosciuto, rispettato e autorevole ingegnere aeronautico, lo studente d’arte, manovale e chitarrista Keith Richards, il rappresentante di commercio e bassista Bill Wyman e il grafico Charlie Watts, un batterista con un passato in vari gruppi blues e tanto scetticismo nei confronti dei giovani compagni. Il sesto uomo si chiama Ian Stewart, suona il piano ed è quello che meno ama apparire dal vivo.
Indecisi su tutto
I sei varcano la soglia degli Olympic Studios dubbiosi su tutto: sui pezzi da scegliere, sull’utilità di produrre un disco e anche sul nome della band, che varia da Rollin’ Stones a Rolling Stones a seconda dell’ispirazione del tipografo che stampa i manifesti. Non li aiuta in quel giorno neppure l’aria che si respira negli studi della Decca, abituati agli ovattati suoni della tradizione classica e poco disposti a comprendere l’esuberanza di quei sei mocciosi dall’aria stralunata. Jagger e compagni registrano due brani. Il primo si intitola Come on ed è un pezzo di Chuck Berry pressoché sconosciuto al grande pubblico e l’altro I want to be loved di Willie Dixon. Di quel giorno resterà nella memoria della band l’atmosfera gelida e ostile dell’ambiente in cui registrano tanto che Bill Wyman anni dopo confesserà: «Siamo rimasti in studio per tre ore e non ci piaceva per niente». La band assume il nome definitivo di Rolling Stones e più per rispettare il contratto che per reale convinzione il disco viene pubblicato. In pochi giorni esaurisce le scorte. Nell’immagine pubblica del gruppo Ian Stewart viene “tagliato” e la formazione ufficiale si assesta stabilmente su cinque componenti. Con i Rolling Stones il beat cessa di essere rassicurante come un’eccentrica curiosità di costume e recupera le sue radici blues più selvagge e crude.