L’8 agosto 1975 Robert Altman presenta il film “Nashville”. Annunciato come un grande affresco sul mondo della musica country, è anche una lucida analisi, tutt’altro che metaforica, sulla provincia statunitense con i suoi vizi e con le sue tentazioni razziste, autoritarie e di destra.
Tra musica ed elezioni
La narrazione descrive lo svolgersi parallelo di due avvenimenti che si intersecano tra di loro: un festival di musica country per il bicentenario della nascita degli Stati Uniti e la campagna elettorale di un candidato alla presidenza. Utilizzando una tecnica di registrazione sonora a otto piste capace di fondere suoni, musica, voci e slogan, il regista racconta attraverso le vicende di ventiquattro personaggi cinque giorni di baldoria paesana che si concludono con l’uccisione di una cantante da parte di un reduce dal Vietnam, mentre il pubblico continua a cantare It don’t worry (Non me la prendo). Il tema caro ad Altman dell’esistenza alienata, spesso brutalizzata dalla casualità degli eventi, spicca sullo sfondo di una città, Nashville, che non è vista soltanto come la capitale della country music, ma come l’emblema stesso della schizofrenica e caciarona identità culturale statunitense
Un capolavoro o un oltraggio?
Il cast mescola personaggi inventati ad altri veri che interpretano se stessi come Jonnie Barnett, Vassar Clements, i Misty Mountain Boys, Sue Barton, Elliott Gould e Julie Christie. “Nashville” divide l’opinione pubblica statunitense. C’è chi lo considera un capolavoro e chi, indignato, parla di «oltraggio ai valori fondanti della nazione». Oggetto di polemiche accese finirà per essere bistrattato, nonostante i lusinghieri giudizi della critica di tutto il mondo, dall’Academy Awards, la giuria che assegna gli Oscar. Il film riceverà, infatti, soltanto un unico striminzito Oscar per la canzone I’m easy, scritta da Keith Carradine e cantata dallo stesso in una esilarante scena in cui quattro donne pensano contemporaneamente di essere le destinatarie dell’esecuzione.