Il 29 luglio 1900 un tessitore anarchico nato a Prato, Gaetano Bresci, uccide il Re d’Italia Umberto I a Monza. Catturato dopo l’attentato morirà un anno dopo, in circostanze misteriose nel carcere per ergastolani di S. Stefano. Il suo è un gesto simbolico (si proclama “vendicatore” di Bava Beccaris) che chiude un’epoca tormentata iniziata il 1° marzo 1896 ad Abbà Garimà presso Adua, quando un contingente di 15.000 uomini delle truppe coloniali italiane viene sconfitto in battaglia dalle forze abissine lasciando oltre seimila morti sul terreno. Quel disastro militare chiude per sempre la carriera politica del primo ministro più legato all’avventura coloniale, Francesco Crispi.
Una svolta autoritaria
L’uscita di scena di Crispi, se da un lato ferma l’espansione africana del Regno d’Italia, dall’altro, contrariamente alle previsioni, non segna l’inizio di una svolta democratica nella politica interna italiana. L’eterogeneo arco di forze sociali che sosteneva Crispi, formato dagli industriali beneficiari delle commesse militari, dagli agrari del Mezzogiorno e dallo stesso re Umberto I era favorevole a una svolta sostanzialmente autoritaria. Il 1° gennaio 1897 Sidney Sonnino, parlamentare della Destra, pubblica sulla “Nuova Antologia” un articolo intitolato “Torniamo allo Statuto” sostenendo la necessità di far ritorno allo spirito e alla lettera dello Statuto albertino per rafforzare l’esecutivo e l’istituto monarchico, in aperta contraddizione con l’opera di Cavour, Lanza e Depretis, che avevano trasformato in parlamentare il sistema costituzionale del ’48. Il successore di Crispi, Di Rudinì, all’inizio del suo mandato sembra in grado di controllare le tensioni che agitano in quel periodo l’Italia, sempre più inquieta per la scarsezza di pane e il suo insostenibile rincaro provocato da una cattiva annata agricola e dalla contrazione delle importazioni del grano d’oltreoceano per la guerra ispano-americana. Tumulti e sommosse si diffondono ovunque nel paese al grido di “pane e lavoro”. Il governo Di Rudinì, come scriverà più tardi Ivanoe Bonomi, «si mantenne inerte di fronte alle cause economiche del movimento. Poteva, come gli veniva consigliato da molte parti, sospendere il dazio interno sulle farine; ma per timore di offendere interessi di ceti numerosi e potenti, esso si astenne dal prendere subito quei provvedimenti che avrebbero temperato l’insopportabile rincaro».
Un gesto vendicatore
Di fronte al dilagare della protesta non gli resta che adottare provvedimenti di natura repressiva. La prova di forza è a Milano quando il governo affida i pieni poteri all’esercito. Per tre intere giornate, dal 6 al 9 maggio 1898 divampano a Milano tumulti, repressi con mano di ferro dal generale Bava Beccaris che impiega il cannone contro una folla inerme. Il bilancio ufficiale è di ottanta morti e quattrocentocinquanta feriti, ma in realtà le vittime sono molte di più e comprendono donne e bambini. Nei giorni successivi vengono eseguiti centinaia di arresti di esponenti dell’opposizione. L’elenco comprende, oltre a una lunga lista di repubblicani, anarchici e socialisti, anche don Albertario, direttore dell’“Osservatore cattolico”. Quasi a sfidare le ire della piazza, Umberto I decide di insignire il Bava Beccaris della più alta decorazione del regno, la Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia, per i “servizi” resi al paese. Di questi fatti si dichiara “vendicatore” Gaetano Bresci il 29 luglio 1900 quando, recuperando quella sorta di sacralità del gesto individuale che caratterizza l’anarchia di quel periodo, compie l’omicidio “purificatore”.