L’aria è fresca e il cielo terso, una tipica giornata di luglio; nel luogo predisposto al colloquio, in un giardino all’interno del carcere di Volterra. Ci sono delle emozioni che non si possono spiegare ma occorre provarle. Nella lunga attesa per controlli, registrazione documenti, ancora controlli, deposito oggetti nella cassetta predisposta, mi sembra di essere in una scena da film: muri un po’ scrostati, colori inesistenti, persone che attendono il loro turno, con sorrisi e ansie.
(È domenica e chi può fa un viaggio verso un abbraccio)
Gli addetti alla sicurezza e ai controlli sembrano automi, senza sorrisi senza parole superflue. E sto ripensando al titolo del libro di Emidio.
(Senza speranza e senza disperazione)
Solo ora ne comprendo tutto il significato, ogni dettaglio. Alla fine mi accompagnano e l’incontro inizia con un fiume di parole di chi ha bisogno di incontrare, parlare e ogni colloquio è un avvenimento da ricordare fino al prossimo. Nel castello mediceo che tanta storia ha guardato, vedo le sbarre alle finestre delle celle.
- Com’è fuori?
… in un mondo banale pieno di malvagità e cattiveria che vuole solo prevaricare l’altro, forse solo l’arte e la passione per la vita autentica sono le cose che voglio vedere e vivere e raccontare. Il resto non mi interessa. Occorre lasciare ogni zavorra per viaggiare leggeri e con più leggerezza avremo, maggiore sarà l’intensità dei momenti.
- Sto scrivendo, la mia vita qui è scrivere
Mi parla, mi ascolta e capisco un uomo, comprendo le sue emozioni vere, autentiche. Le ore passano veloci come se in quel luogo non ci sia un tempo, ma solo l’emozione di un incontro. Il mio viaggio in questa domenica di luglio mi lascerà leggerezza. Penso già a ciò che porterò nel mio prossimo incontro.
Cristina del Torchio
Carcere e poesia, Emidio Paolucci
L’intervista a Emidio Paolucci
Senza speranza e senza disperazione, così Emidio Paolucci ha titolato la sua raccolta di testi in cui il dettato poetico assume un andamento secco, scarno, disadorno, spoglio di verità consolatorie. Ma Emidio scrive senza troppe pretese, per sé, per ricordare, per dimenticare, per esorcizzare, per amore o per mandare a cagare (Cos’è che fanno i poeti, pag. 71). Il carattere malinconico della sua poesia riflette un’intima sofferenza esistenziale percorsa da fremiti di rinnovamento spirituale. Dove la comune morale dei benpensanti ispira ripulsa, c’è la denuncia. C’è lo smacco. C’è la sconfitta sociale. Sì, quella di Emidio è Poesia. È poesia che sgorga direttamente dai deserti della propria esistenza. E in fondo si sa, i deserti, per quanto vasti, sono luoghi di prigionia. Lo devono proprio alla loro ampiezza. Da qualche tempo la sicurezza sociale è tema centrale del dibattito politico. Del resto, cosa non si sarebbe disposti a fare pur di racimolare consensi. Poco importano il sovraffollamento e l’inadeguatezza delle strutture detentive, il deterioramento delle condizioni di vita di chi è in carcere, la difficoltà di reinserimento dei detenuti o le loro carenze di vita affettiva e sessuale. Era l’8 gennaio del 2013, quando dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo fu pronunciata una sentenza che mise sotto accusa il sistema penitenziario italiano per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea, in cui si legge: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani e degradanti”. Per usare le parole del nostro autore, “pensiero e giudizio per arrivare a costruire galere” (in Sai c’ho pensato anch’io, pag. 23)
Emidio, prima di addentrarmi nella lettura delle tue poesie, mi sono chiesto cosa possa esserci laddove si rimane “senza speranza e senza disperazione”. Si gioca sulla reciproca esclusione di due termini opposti nel significato, alfine di esprimere una precisa dimensione concettuale. Di cosa si tratta? E come abbraccia tutta la tua opera?
Cosa può esserci quando si rimane Senza speranza e senza disperazione? C’è una “vita” da reinventarsi, da ricostruirsi, e quando si fa questo ci s’inventa tutta una nuova esistenza, tragica che sia, non prescinde dai bisogni che uno ha sempre avuto ed ha. Ma questi bisogni non li si riesce più a soddisfare come un tempo, come quando si era liberi, quindi parte di questi bisogni, di queste necessità, ognuno li riversa, a modo suo, su qualcosa, io, parte dei miei “bisogni” li esorcizzo con la poesia. Senza speranza e senza disperazione è una frase di Isak Dinesen, la ritengo molto, tanto, vicina alla mia esistenza, a quello che mi ha portato a vivere 31 anni di entrate ed uscite dal carcere (anche in Spagna e Belgio), 20 anni di carcere fatti (da 6 sconto una condanna a 30 anni). Nel leggere questa frase ho visto riassunta la mia esistenza. Senza speranza di scrollarmi di dosso l’etichetta, il marchio del carcere, dell’essere (stato) un fuorilegge (la condanna della società, spesso, è più lunga di quella dei tribunali); allo stesso tempo, quel senza disperazione è l’idea di un futuro diverso. Ci spero? No, ci CREDO.
La tua può essere letta come una poesia di denuncia. Di fatto, metti sotto accusa la realtà come dimensione che, seppur claustrofobica, è solo capace di creare mura e galere. Come te lo spieghi?
La mia poesia può essere letta come poesia di denuncia? Non ho mai pensato a questo. Che il carcere sia inutile c’ho pensato e ne sono convinto, che il carcere sia una discarica sociale è un fatto oggettivo, basta entrare in un carcere per rendersene conto. Il carcere, il suo sistema rieducativo è un fallimento che produce il 70% di recidivi, oltre questo produce morte e suicidi, io ne ho visti morire tre. Esistono altre forme di esclusione sociale percorribili. Sono abolizionista, ma il discorso richiederebbe tempo. Credo che il carcere sia una fabbrica di delinquenza, in questo ci riesce bene. Entrai giovanissimo in carcere, fui messo in mezzo a un branco di lupi; per non essere sopraffatto, mi feci lupo anch’io, entrai nel branco. La mia poesia? È realismo.
Cos’hai trovato nella poesia durante la tua permanenza in carcere in questi ultimi anni? In fondo, è chiaro, non ti rivolgi solo a te stesso. Si potrebbe dire della tua poesia che è una finestra sul mondo. Traendo spunto da queste considerazioni, mi chiedevo: da cosa nasce il bisogno di pubblicare i tuoi scritti? Da cosa nasce il bisogno di pubblicare i miei scritti?
Nasce dalla caparbietà di un’amica, Alessandra Lucini. Se non fosse stato per il suo interesse, per il suo credere nelle mie poesie, forse le mie poesie sarebbero ancora tutte sui miei quadernoni, girerebbero per le celle, tra i detenuti che amano leggerle; e poi c’è anche il fatto di aver trovato un’editrice, Cristina Del Torchio, che è stata in grado di apprezzare quel che scrivo, a lei devo molto, tanto. Per me scrivere è una necessità spirituale, non c’è altro oltre questo.
Che posto ha l’amore nella tua raccolta? Ci sono uomini senza poesia, ma così che sapore ha l’amore? si legge in La voce a cui ho dato retta. Qual è la voce a cui hai dato ascolto?
L’amore non ha un posto solo nella mia raccolta di poesie, certo c’è anche amore nelle mie poesie, ma l’amore ha un posto in tutta la mia esistenza, anche ora, ora che sono qui, corrisposto o non che sia, c’è, c’è per me. La voce a cui ho dato retta? Alla voce del cuore, dei sentimenti, della passione. Queste voci sono sempre venute prima di tutto. Non mi ha deluso l’amore, mi hanno deluso le persone.
In È stato meglio ieri sera (pag.36) si legge: È stato meglio ieri sera/meglio perchè non c’era più niente da inventarsi. /Poche cose ormai mi fanno male. /Sorseggio il caffè/ e poi m’accorgo con indifferenza del tuo silenzio. Di chi è il silenzio di cui t’accorgi con indifferenza? E quali sono le poche cose che ancora ti fanno male?
La poesia È stato meglio ieri sera, il pezzo che mi citi, racchiude il disfacimento di una relazione ormai impossibile da salvare, da sopportare, dove appunto non c’è più niente da inventarsi per poterla salvare. La cosa più triste in carcere è il silenzio di chi non dovrebbe tacere, il silenzio immeritato che ti viene “regalato”. Si arriva, s’è costretti a farsene una ragione, si cerca di diventare indifferenti, ma nonostante si riesca a superare (in parte) il dolore, resti segnato per sempre, irrimediabilmente. In carcere sei indifeso, sei solo, ci resti se vieni abbandonato.
Nonostante tutto, affiorano notti in cui riesci ancora a illuderti. In Chiamiamoli i tuoi sogni (pag.77), si legge: E allora/ mi prendo un paio di sogni lasciati di riserva/ che poi/ non sono proprio sogni/possono esserli/a volte non lo sono…Sogni/sogni che possono far male/sogni che pochi ritengono sogni/sogni che possono diventare incubi/sogni che pochi hanno il coraggio di sognare/sogni che dicono:/Non c’è più tempo. Qual è il sogno di chi sta oltre le mura, frutto della sua fede, frutto della tua trascurata eresia? Qual è il sogno che appartiene a te e a te soltanto? Quell’ultimo sogno, forse per una lunga notte insonne?
La poesia Chiamamoli Sogni, è una poesia, che se venisse spiegata perderebbe parte del suo fascino, le poesie non andrebbero mai spiegate. Voglio dire però che i sogni di chi è fuori, oltre le mura, sono sogni che s’affidano a una logica che non appartiene più a chi è in carcere. Chi è in carcere è in una dimensione inimmaginabile e ci sono sogni che solo un prigioniero può desiderare con forza. Chi è oltre le mura, certi sogni, li dà già per scontati, ma il prigioniero ha un sogno che non l’abbandona mai, ed è il desiderio di libertà. Molti prigionieri conoscono il significato della libertà, chi è oltre le mura? Può soltanto tirare ad indovinare, adattandosi (non tutti).
Dopo “Senza speranza e senza disperazione” serbi altri progetti letterari?
Serbo altri progetti letterari? Sì, ho tante poesie inedite, ma vorrei anche avventurarmi nella narrativa, vorrei provarci, racconti brevi. Il genere? Il mio.
Intervista a cura di Pietro Romano