Ritenuto unanimemente dalla critica specializzata il miglior libro del 2012, Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta (Rizzoli, 2012) di Luigi Zingales è uno di quei testi che sono destinati a incidere in profondità nel dibattito politico ed economico.
Docente di Impresa e Finanza alla Booth School of Business dell’Università di Chicago, Zingales (in foto) parte da una considerazione di carattere generale per argomentare la sua analisi: gli Stati Uniti stanno vivendo una fase di declino economico a causa della degenerazione del proprio sistema economico dovuto a quello che l’autore chiama “crony capitalism”, ossia un capitalismo di natura clientelare, strettamente legato al Governo in carica e che inevitabilmente, proprio per le sue caratteristiche di relazione e non di competizione, corrompe il corretto funzionamento del libero mercato. In tale maniera, sottolinea Zingales, vengono meno gli elementi essenziali di una vera economia liberale come le opportunità e il merito, tratti fondamentali per l’esistenza del libero scambio e della cooperazione tra gli individui. La conclusione che l’autore trae è molto semplice: “In un mercato competitivo non c’è spazio per le clientele. Lo spazio si apre quando un’impresa conquista una posizione di mercato: il clientelismo è un altro grande costo del monopolio”.
La ricetta di Zingales per salvare il capitalismo
Il cancro dell’economia statunitense: il capitalismo clientelare
La comprensione del fenomeno del capitalismo clientelare è fondamentale per comprendere gli sviluppi delle argomentazioni in quanto l’economista padovano si chiede come mai l’America sia arrivata a questo punto di corruzione del proprio sistema e quali passi occorre compiere affinché l’economia di mercato di stampo liberale possa essere svincolata da pericolosi intrecci con la politica (che ha generato conflitti di interessi particolarmente nocivi) con il conseguente recupero di una dimensione etica che lo stesso Adam Smith delineò nella “Teoria dei sentimenti morali”.
Zingales analizza questo processo di corruzione del sistema statunitense sia in prospettiva storica che in chiave economica. Il nocciolo del problema risiede in quella che l’autore chiama “cattura” dello Stato ad opera del potere finanziario e delle grandi imprese: “L’aspetto convincente nella tesi della cattura è che vi sono degli incentivi economici tali da incoraggiare anche i regolatori con le migliori intenzioni a soddisfare gli interessi delle aziende che sono chiamati a regolare”. La conseguenza immediata di questo sviluppo clientelare dell’economia è di carattere prettamente culturale in quanto diffonde la convinzione che il processo di selezione e la ricerca del successo non avvenga più in riferimento alle qualità personali e al merito individuale ma semplicemente sulla base delle relazioni che si vengono a costruire. Con il disastroso corollario che siffatta economia diventa di sussidio (clientelare) e non più di mercato (competitiva).
Le conseguenze di una crisi dei consumi
A tale proposito, il professore della Booth school of Business di Chicago illustra la crisi del mercato finanziario americano, un settore dove “il potere dei grandi istituti finanziari sia negli anni precedenti che in quelli successivi alla crisi ha generato cattive regole e regolatori collusi che hanno permesso loro di prosperare e fare esplodere i rischi del sistema”. Specie dopo l’abolizione del Glass-Steagal Act (legge introdotta nel 1933 che teneva distinte le banche d’affari da quelle commerciali) sul finire del secolo scorso, gli istituti di credito hanno continuato a crescere in maniera sempre più vistosa fino a diventare organismi particolarmente complessi e legati strettamente al potere politico da cui ricevevano protezione e sostegno. Questo processo di concentrazione clientelare ha scosso in primo luogo la fiducia di tutti coloro che ritenevano valori come libertà, uguaglianza e successo raggiungibili in ragione del funzionamento di un’economia di mercato liberale. Detto in breve, il mito dell’american dream e del self-made man.
Al contrario, si è generata una generale sfiducia verso il sistema politico ed economico e Zingales sottolinea come la divaricazione della forbice della disuguaglianza, la crescente crisi delle classi medie e la sfiducia popolare nell’élite intellettuale statunitense, ritenuta ormai incapace di formulare delle proposte adeguate per affrontare lo stato di crisi, hanno accresciuto il tasso di populismo in America e hanno dato vita a opposti estremismi come i Tea Parties e Occupy Wall Street. Entrambe queste posizioni propongono degli approcci radicali nei confronti di un sistema ritenuto corrotto dove la pessima gestione della politica e le disastrose performances del capitale finanziario si sostengono vicendevolmente generando rabbia e disgusto nella popolazione.
America tra populismo e riforme
Il populismo rappresenta il campanello d’allarme più vistoso di questo periodo storico e Zingales vi dedica un intero capitolo per dimostrare che, se da una parte, forme radicali di populismo vanno combattute con politiche mirate che facciano rientrare sfiducia e malcontento, dall’altra lo stesso autore sottolinea che la “febbre” populista può offrire l’opportunità per promuovere delle riforme adeguate che promuovano una più solida ed efficace ripartizione di competenze tra i diversi poteri istituzionali ed economici proprio come avvenne, continua Zingales, con le riforme progressiste dei primi decenni del XX secolo: legge antitrust, trasparenza contabile, norme antifrode solo per citarne alcune.
Con spirito ottimista verso una possibile riforma del sistema, Zingales traccia, nella seconda parte del libro, alcune delle linee guida per il capitalismo del XXI secolo. Quella che l’economista padovano suggerisce è una profonda rivisitazione del capitalismo, un capitalismo dal volto umano. Un sistema che premia la concorrenza e riduce le disuguaglianze tra gli individui tramite l’offerta di uguali opportunità già in partenza. Un sistema che favorisce la separazione tra politica, da una parte, ed economia e finanza, dall’altro, come strumento per annullare l’influenza nociva delle lobbies di vario tipo. Un sistema che rafforza i meccanismi antitrust e limita le possibili concentrazioni di potere e dove il sistema normativo si fonda su poche e semplici regole da osservare. Ma Zingales si spinge oltre fino a delineare la piena accessibilità a tutti delle informazioni e dei dati. È un capitalismo che si basa sull’etica, su un insieme di valori morali che favorisce lo sviluppo del capitale civico. Partendo dal concetto di fiducia: “È la fiducia che le persone ripongono in un individuo scelto a caso che appartiene a un gruppo o a una società, qualcuno che non si conosce e con cui non si avrà necessariamente a che fare in futuro. La presenza di tale fiducia consente ai mercati di svilupparsi, al commercio di prosperare, alla società di crescere”. Si capisce fino in fondo la fiducia dell’autore verso il sistema capitalista, non certo un sistema perfetto e infallibile ma certamente quello che offre le maggiori opportunità per tutti. Non si tratta, pertanto, di demonizzare la ricchezza o di voler abbattere il capitalismo ma di lavorare per renderlo più giusto, più umano e più efficiente.
E l’Italia secondo Zingales?
L’edizione italiana di Manifesto capitalista vede un’interessante postfazione che prende di mira, in particolare, la “peggiocrazia” del nostro Paese. Zingales si chiede perché l’Italia non riesce a crescere sia dal punto di vista economico che sotto il profilo culturale e trova una risposta efficace nell’indicare le cause nella diffusa corruzione presente nella Penisola, nella mancanza di una cultura della legalità e nel “familismo amorale” che vede la mancanza di fiducia verso gli altri come tratto culturale distintivo. È questa carenza di natura comportamentale a far sì che le imprese italiane non evolvano in organismi più grandi rimanendo a pura condizione familiare. È questa mancata apertura di credito che favorisce i mediocri rampolli di famiglia rispetto a persone capaci e meritevoli seppur estranee a quella specifica realtà aziendale. È, infine, questa cultura miope a guidare i processi di selezione del personale dai livelli lavorativi più alti agli ambiti collocati più in basso dove prevale più la logica di fedeltà a una certa cordata che non il riconoscimento della competenza.
Come nel caso degli Stati Uniti, può l’Italia uscire da questa situazione? Zingales ritiene che il nostro Paese possa farcela a patto di comprendere che sono “i momenti di crisi [che] spingono sempre verso l’efficienza e la meritocrazia”. L’Italia ce la farà se saprà valorizzare tre gruppi: giovani, donne e immigrati, gli esclusi per eccellenza del nostro sistema, i quali, non avendo nulla da perdere, potrebbero però diventare dei fattori di proposizione verso la rivoluzione liberale, verso un capitalismo “amico del popolo”.
Anche per il nostro Paese urge una terapia d’urto
Zingales amplia la sua analisi sull’Italia indicando una vera e propria terapia d’urto che riguardi una giustizia civile e penale più efficiente, un fisco più equo e meno esoso, un rilancio della concorrenza e della competitività tramite privatizzazioni mirate e investimenti in ricerca e innovazione e nella risoluzione di uno storico problema della vita civile italiana: il conflitto d’interessi.
Anche il sistema scolastico e universitario è investito dalle considerazioni di Zingales in quanto il tasso medio di qualità dell’istruzione deve salire e portarsi in pari con gli altri Paesi occidentali. Riforma del corpo docente e degli insegnanti, studio delle lingue estere e frequenti scambi culturali che amplino gli orizzonti dei giovani italiani completano il quadro. Ma c’è ancora un punto che Zingales tocca ed è la riforma della politica italiana. Meno sprechi, meno burocrazia e più efficienza devono riguardare anche le classi dirigenti sia nazionali che locali specie in un momento di forte antipolitica come quello attuale. È un problema di cultura anche questo, di “questa cultura che manca in Italia, ed è questa mancanza che frena il nostro sviluppo oggi”.