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L’arte e l’ecologia della visione

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Tra le tante immagini che colpiscono il nostro sguardo, non tutte si prestano per essere magari conser-vate nel data base dei nostri ricordi. Grazie, anzi, a quella formidabile capacità insita in noi di allontanare e di can-cellare ricordi spiacevoli, curiamo inconsapevolmente o istintivamente di evitare visioni che possano colpire la nostra suscettibilità o la nostra sensibilità, come al co-spetto di scene violente o di immagini brutali. In questi casi, si fa strada, appunto, l’ecologia della visione: quella certa nostra disponibilità a privilegiare vi-sioni che non offendano o feriscano col loro carico di brutture iconiche. L’ecologia della visione insorge, tra l’altro, quando s’avverta il bisogno di purificare, come a voler bonificare, l’universo delle immagini adulterate della quotidianità di cui sono pregne, per esempio, le cronache giornalistiche e televisive.

L’ecologia della visione, quando lo sguardo si posa su un’opera d’arte

L’ecologia della visione la si vede, anzi, la si avverte specialmente ogni volta che lo sguardo si posi, per esempio, su un’opera d’arte. E per opera d’arte occorre in questo caso intendere non solo i portati della creatività umana ma anche quelli della più spontanea “produzione” naturale, quali possono essere un tramonto mozzafiato, una distesa marina sotto il vento di maestrale… insomma tutto ciò che s’offra alla vista (ma anche all’udito) e lasci d’incanto impressioni di  spaesamento, attimi in cui la percezione del bello e del sublime si danno la mano per farci cadere nel tranello dell’illusione estetica, durante la quale l’io impazza nella ricerca d’un quid, che tuttavia sfugge ad ogni tentativo di spiegazione razionale.

Un’esperienza del genere la si può avere (come è accaduto a chi scrive) anche cercando di interpretare il carattere e il contenuto delle opere di un grande dell’arte, per esempio di Paul Cézanne.

Comunque lo si voglia vedere, Cézanne è lì: geniale al pari di coloro che hanno  rotto con le convenzioni dell’arte o, almeno, con quel fare artistico che minacciava di divenire ripetitivo, un replay di stilemi scontati, di costrutti ormai mortificati nella routine pittorica. Non era forse accaduto lo stesso con Giotto, Masaccio, Van Eyck, Leonardo, Michelangelo, Giorgione, Caravaggio e, da ultimo, Picasso?

Il segno della novità, ovvero della genialità cézan-niana, i più lo vedono nella maniera in cui il visionario della montagna Sainte-Victoire tratta la materia pittorica e il colore. Entrambi questi elementi sono vissuti e inter-pretati al di là della stessa nuova lezione che poteva ve-nire dagli impressionisti suoi colleghi, che, pure, avevano rotto con l’Accademia: materia pittorica e colore sono visti, trattati ed interpretati – appunto – come segno, anzi, come fenomeno, essenza dell’espressione pittorica e non più come tentativo di tradurre la realtà in tratti suf-ficientemente fedeli e perciò verosimili e condivisibili. Cézanne firma l’inizio di questa ennesima rivoluzione. Il resto sarà detto e fatto dal cubismo e, in modi progressi-vamente sorprendenti,  dai suoi numerosi epigoni.

Cézanne e le risonanze della sua pittura

Per capire la portata della novità rappresentata da Cézanne non ci sarebbe niente di meglio, forse, che andare a scoprire le risonanze che la sua pittura ha riverbe-rato nelle opere degli artisti che l’hanno seguito. Ma dando per scontata l’influenza che i grandi artisti “passati” hanno inevitabilmente esercitato ed esercitano su quelli  “presenti” (Leonardo, per esempio, non ha subìto il fascino del Verrocchio e Filippo Lippi non ha nulla da dire sul conto di Botticelli?), è forse più interessante tratteggiare le caratteristiche di Cézanne, cioè, della sua pittura.
Si diceva della materia pittorica e del colore che in Cézanne acquistano una peculiarità particolare, tanto particolare da farsi distintivo della genialità del maestro di Aix.

Sin dalle prime opere la mano di Cèzanne imprime i tratti inconfondibili della sua arte: la sicurezza del segno, la pastosità e in qualche caso la durezza della materia, il colore denso ancora inespresso nelle sue infinite e umbratili valenze, steso per ampie campiture e con tinte tanto omogenee da sfiorare il monocromatismo: tali, per esempio, sono i connotati più salienti della “Maddalena” (1865).

Lo stesso potrebbe dirsi della “Natura morta (zuc-cheriera, pere e tazza blu)” (1866). Qui non gli basta più il pennello e ricorre alla spatola per scalfire, (“solcare” quasi) la tela e depositarvi strati di colori vibranti di gialli, blu, arancioni: semafori di luce impressi sulla tela a eterno godimento per l’occhio. Non vi è certamente in questo profluvio di materia e di luce la grandiosità e la divina bellezza della pastosità   pittorica dell’ultimo Rembrandt; ma vi è senza dubbio la medesima drammaticità del gesto creativo.
A queste prime forme espressive seguiranno altre dove il fervore pittorico si fa più piano, più riflesso, più meditato e meno contrastato: il dipinto quasi rifluisce nei canoni della composizione “tradizionale”. Ne sono esempi il “Vaso, caffettiera e frutta” (1869), “Terrapieno” (1870).
Da questo momento e fino a tutto il 1874, Cézanne si concede alla pittura, se così si può dire, “pitturata”, ovvero alla piacevolezza che può arrecare una tavolozza del colore sfumato. E’ così in “I ladri e l’asino”, “Pastora-le”, “La casa dell’impiccato”, “La casa del dottor Gachet a Auvers” e in “Una moderna Olympia”.
“La casa dell’impiccato” dimostra la concessione che Cézanne fa all’impres-sionismo. Forse per la prima volta egli dipinge en plein air. Abbandonando la cupezza delle prime opere, il pittore dispiega la sua incomparabile maestria nel definire le forme più contenute e corrette della visione paesaggistica secondo i nuovi proclami della moda di Monet e compagni. Il colore non vi compare più “a masse” ma a tratti sapientemente disposti, come microscopiche spie luminose, tutti però con una propria cifra, una propria tonalità.

Nelle opere che seguono, la maturità di Cézanne segna l’apoteosi personalissima della sua arte: nella figura (ritratta nella sua interezza) come nel caso delle “Ba-gnanti”, nel paesaggio (“Cortile di fattoria a Auvers”), nel ritratto (“Autoritratto con cappello”), il pittore abbandona i tentativi più o meno riusciti del suo accostamento ai colleghi impressionisti e rende grazia alla sua più intima vocazione nonostante l’aria di incomprensione dalla quale era assediato.

Forme, tecnica ed interpretazione

Le forme e la tecnica del suo operare si standar-dizzano in peculiarità che, come per Modigliani, lo ren-dono inconfondibile. Non sempre le sue opere agiscono nel profondo di chi le osserva: non vi si scorge, infatti, l’eleganza formale dello stesso  Modigliani, né, tanto meno, la grazia delle ballerine di Degas. Anche nei ritratti più riusciti   v’è come un velo di incomunicabilità: è quanto si percepisce, per esempio, nel ”Ragazzo con il panciotto rosso”: nonostante la magnificenza dei colori che vibrano come bandiere alle finestre, lo sguardo del ragazzo rimane inerte, quasi senza vita: forse il segno della malinconia che l’artista voleva esprimere.

Si taceva delle nature morte. In queste Cézanne scopre una parte della sua sensibilità. Egli tocca gli oggetti (bricco, tazza, caffettiera, piatto, zuccheriera) e ne svela l’anima, toccandoli appena e disponendoli come torri di vedetta sui profili arrotondati della frutta. La forma curva qui prende il sopravvento: è la più adatta a catturare e a riflettere le onde di luce.

Così si conclude l’universo pittorico di Cézanne: l’artista, rendendone testimonianza con una devozione quasi maniacale,  ha esplorato nel paesaggio le infinite e misteriose pieghe della bellezza del reale, nelle nature morte l’intima struttura parlante delle cose, nella figura (e nel ritratto in particolare) la struggente e intima pro-fondità dell’essenza e della natura umana.