Il 29 aprile 1935 muore di nefrite a Indianapolis, nell’Indiana, il cantante e pianista Leroy Carr, uno dei grandi protagonisti della storia del blues. Tra i principale artefici del rilancio di questo genere musicale negli anni Trenta con la sua creatività l’ha guidato fuori dalle secche sterili del barrelhouse e dalle tentazioni commerciali del boogie woogie.
Una straordinaria agilità nelle dita
La morte se lo porta via presto, quando ha compiuto trent’anni da poco più di un mese. Nato a Nashville, in Tennessee, il 27 marzo del 1905, si trasferisce ancora bambino con la madre a Indianapolis, la città nella quale trascorrerà quasi tutta la sua breve esistenza. Per aiutare la madre, costretta a vivere in condizioni miserevoli, inizia presto a darsi da fare, prima come garzone di bottega e poi come manovale nel contrabbando di alcol, una sostanza che gli fa compagnia fin da quando porta ancora i calzoni corti e che mal si combina con i disturbi renali che l’assillano. Autodidatta, perfeziona la sua tecnica pianistica suonando nei vari locali della sua zona. Determinante è, nel 1927, l’incontro con il chitarrista Scrapper Blackwell. La profonda intesa che si crea tra i due sul piano artistico è alla base dell’affinamento di una serie di innovazioni stilistiche che rendono ancora oggi Carr unico sia dal punto di vista strumentale che per quel che riguarda il canto. Il suo strumento è il pianoforte, inizialmente guardato con un po’ di sospetto dai ‘puristi’ perché concettualmente lontano dal blues delle origini. Dotato di una straordinaria agilità nelle dita ne utilizza sapientemente i bassi cadenzandoli sulle particolari movenze della voce in modo da sottolinearne le suggestive variazioni agro-dolci.
Il blues esce dalla monotona ripetitività
Con lui il blues esce dalla monotona e ripetitiva struttura della ballata per acquistare nuovi colori, delegando proprio alla ricca gamma di espressioni vocali la sottolineatura emozionale della poeticità dei brani. Nonostante la fatica per trovare spazio nel panorama musicale dell’epoca, all’inizio degli anni Trenta conosce una crescente popolarità anche grazie al successo della sua versione di How long blues fino a diventare il cantante nero di maggior successo degli anni Trenta con un blues urbano sia nello stile che nello spirito. I suoi temi preferiti sono l’alienazione e l’emarginazione della popolazione nera segregata e mai completamente integrata nel tessuto sociale degli Stati Uniti. Conosce bene i propri limiti artistici, sa di non possedere straordinarie qualità vocali, ma le sa utilizzare nel modo più suggestivo legandole alla dolce malinconia del pianoforte. Con la popolarità arrivano anche i soldi. Dopo aver vissuto nell’indigenza più completa si ritrova improvvisamente beneficiato dalla fortuna e finalmente sembra lasciarsi definitivamente dietro alle spalle un’esistenza condotta al limite della legge. Il benessere economico prende il posto della povertà, ma sono in agguato i vecchi fantasmi. I primi soldi fanno la felicità dei fornitori di alcolici, e minano definitivamente il suo fisico. La morte lo sorprende prima che possa godere della discreta quantità di denaro accumulata e per qualche anno i suoi eredi beneficeranno di un’inaspettata fortuna.