L’11 aprile 1953 viene rinvenuto sulla spiaggia di Torvaianica il corpo seminudo e senza vita della giovane Wilma Montesi. Inizia così uno scandalo politico e di costume destinato a monopolizzare l’attenzione morbosa della cronaca e a provocare un terremoto politico. La ragazza si allontana da Roma, alle cinque del pomeriggio, per recarsi a Ostia e da quel momento le sue tracce diventano confuse, anche se una testimone, la professoressa Rosetta Passarelli, conferma che ha effettivamente preso il treno per Ostia. Il giallo si alimenta di sempre nuove voci, ma, a poco a poco, la pista principale diventa quella di una lussuosa Alfa 1900 che in molti hanno visto aggirarsi nella zona di Torvaianica con a bordo Wilma Montesi e “il figlio di una nota personalità politica”.
Una disgrazia improbabile
La testimonianza principale sull’identità delle persone a bordo dell’auto è del meccanico Mario Piccinini di Castel Porziano, uno dei pochi personaggi di questo giallo che non cambierà mai versione e che ha riconosciuto nei due occupanti la signorina Wilma Montesi e il signor Piero Piccioni. Proprio su quest’ultimo si accendono le attenzioni dei cronisti e della stampa. Il giovane, infatti, è il figlio del ministro Attilio Piccioni, tra i più autorevoli esponenti della Democrazia Cristiana dell’epoca e considerato da molti il probabile successore di Alcide De Gasperi alla guida del partito. Le indagini si fanno più serrate, ma le conclusioni cui giungono gli investigatori destano sconcerto e perplessità. Secondo la ricostruzione, infatti, la morte sarebbe da attribuire a una disgrazia: Wilma toltesi le calze, avrebbe messo i piedi in acqua e sarebbe stata colta da un malore, morendo annegata. Qualcuno parla di “versione di comodo” non suffragata da prove, anche perché sembra che il cadavere non presenti alcuna traccia di permanenza in mare. A zittire gli scettici interviene però il padre della ragazza, Rodolfo Montesi, che dichiara “È stata una disgrazia”.
È stato un delitto
Un caso chiuso? Così si vorrebbe, ma il diavolo ci mette lo zampino. Il 6 ottobre 1953 il settimanale “Attualità”, diretto dal ventiquattrenne Silvano Muto, parla esplicitamente di delitto e denuncia la responsabilità di non ben precisate persone altolocate, dedite alla cocaina e allo sfruttamento della prostituzione. Nel gennaio 1954 il Muto, processato per aver diffuso notizie false rivela ai giudici i nomi dei suoi tre confidenti. Oltre a due aspiranti attrici, Anna Maria Moneta Caglio e Adriana Bisaccia, c’è anche un funzionario della camera, il dottor Franco Angioy. Il caso si riapre. La Caglio nel corso degli interrogatori sostiene che Wilma Montesi sarebbe morta per mano di Piero Piccioni durante un “droga party” organizzato da un certo Ugo Montagna, un consulente dell’INA per gli affari immobiliari che nelle deposizioni viene descritto come un trafficante di droga invischiato in un giro di prostituzione d’alto bordo. Il 21 settembre 1954 il giudice istruttore Sepe ordina la cattura di Piero Piccioni per assassinio e di Ugo Montagna per favoreggiamento. I due vengono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Lo scandalo segna la fine della carriera politica del potente ministro Piccioni. Il processo si svolgerà a Venezia nell’estate del 1957 in un clima torbido e confuso. Il dibattimento, ricco di mezze verità e di testimoni spesso in contraddizione tra loro, si concluderà con l’assoluzione di entrambi gli imputati. Il giallo Montesi, persa la sua attualità politica e sensazionalistica, resterà per sempre senza risposte.